SQUILLA IL CELLULARE: «PRONTO, SONO ALBERT EINSTEIN»
Il «professor» Gonciaruk non deve dispiacersi se al termine della sua performance mi son permesso di osservare che m’era parso d’aver assistito più a una lezione scientifica e astronomica piuttosto che a una rappresentazione teatrale, attività certamente più consona alle abitudini professionali di Daniele Gonciaruk. Il primo, infatti, ad aver dato l’impronta iconografica di una seduta accademica è proprio lui, da regista della messa in scena, portando sul palco tutto l’occorrente per una lectio magistralis: schermo per le proiezioni, video per seguire una precisa scaletta, microfono, materiale didattico e finanche gli assistenti sempre pronti a sostenerlo con effetti speciali o per supplire a quei dispettosi imprevisti che talvolta accadono quando si improvvisa un’impegnativa esibizione.
E non c’è dubbio che di grande impegno s’è trattato per lui e per tutti, se per circa due ore l’attore s’è calato nel ruolo di un professore, esperto di astronomia, vulcanico e irruento, camaleontico e all’avanguardia, ma anche illuminato da una certa follia che gli ha permesso di collegarsi telefonicamente con Albert Einstein, oppure di paragonarsi ad un istrionico Piero Angela (non è sfuggito l’omaggio musicale della sigla di Quark). Figli delle stelle (titolo che fu un successo canoro di Alan Sorrenti nell’estate del 1977) è pensato per essere proposto alle scuole superiori; e oltre cinquecento ragazzi hanno gremito la platea. Il testo – che da scienziato più che profano giudico interessante e abbastanza chiaro – è stato interamente scritto dal Gonciaruk, e se non fosse per qualche lungaggine nel finale, bisogna apprezzarne la singolare semplificazione divulgativa, un’abilità teatrale che molti cattedratici troppo spesso ignorano.
Con il supporto di fotografie, talvolta anche fuori tema ma non fuori programma, e qualche filmato, di schemi e disegni proiettati su un grande schermo alle spalle del protagonista, che all’occorrenza cambiava d’abito grazie al sistematico intervento dell’applauditissima Federica Gugliandolo, Gonciaruk ha iniziato la sua cronistoria cosmica dal big bang che avrebbe formato le galassie e quindi le stelle e i pianeti e la nostra Terra, a cui è dedicato il capitolo finale con il racconto sulla nascita della vita. Ora (e lo dico per confortare l’attore), se dovessi giudicare la performance con occhio prettamente teatrale, oltre a storcere il naso su parecchi particolari delle innumerevoli e stravaganti trovate del «professor» Gonciaruk – tipo quella di cantare Fly me to the moon (In other words) in cappotto vintage, lungo e grigio, dovrei puntare il dito soprattutto su una recitazione priva di logica consequenziale, ma queste osservazioni, in un simile contesto, non si possono e non si devono fare, proprio perché la letcio di Gonciaruk non può essere catalogata tra le canoniche rappresentazioni teatrali.