SARAVO PORTA IN SCENA LA COMMEDIA DEI CONTRASTI
Di ogni spettacolo, quel che resta più impresso nella mente e nella sensibilità degli spettatori, solitamente sono i primi due minuti e gli ultimi due. Pertanto, se si dovessero prendere in considerazione soltanto questi brevissimi estratti della regia che Luigi Saravo ha creato sulla nuova versione dell’Avaro di Molière, tradotta da Letizia Russo, resterebbe da esaminare prima la sgradevolezza di una recitazione falsata dai microfoni e poi la festosità degli applausi di una platea attenta e coinvolta. Tuttavia questi non sono gli unici momenti contrastanti di quest’allestimento che delle antitesi e delle contraddizioni ne ha fatto addirittura il punto di forza.
Fatico tuttora a discernere ciò che è bene e ciò che è male, ma certamente il suono delle voci che giunge metallico dall’amplificazione della fonica, e non in maniera naturale dal boccascena, è un atto sacrilego che si perpetua, ormai da tempo, nei confronti soprattutto degli attori. Se sono attori di teatro, ossia professionisti che hanno studiato dizione, che hanno studiato come timbrare le parole fino all’ultima sillaba, che hanno studiato come portare la voce, e che hanno studiato come sostenere i fiati, etc. etc. Insomma, se si tratta di attori che hanno dedicato qualche tempo della loro vita ad apprendere e provare la tecnica della recitazione, non vi dovrebbero essere problemi a recitare senza microfono in un teatro dove Eduardo, già vecchio, con un filo di voce, riusciva a farsi sentire fino all’ultima galleria. Se invece si vuol far televisione in palcoscenico, allora mettiamo pure i registratori con dei figuranti in scena, offrendo ai produttori l’opportunità di risparmiare così sulla paga degli interpreti. Che tanto, anche in locandina, son già messi tutti insieme, ben mescolati, come fagioli senza identità in un pentolone a far la minestra! E mi dispiace per Ugo Dighero, unico riconoscibile, ma che, per rispetto al minestrone comunitario, non oso giudicare: la commedia di Molière non è un assolo, ma un concertato. Perché gli attori non si ribellano mai a questi sfregi che vengono loro imposti: microfoni che mortificano la loro professionalità e deplorevole anonimato, cosicché nessuno potrà mai riconoscerli. Quando gli attori cominceranno a ribellarsi, allora qualcosa forse cambierà. Finché sarò soltanto io a denunciare queste ingiustizie, che vengono perpetrate sulla loro carriera, sarò soltanto io la voce ribelle, l’unica stonata che difende la dignità di un’arte che fu nobile.
Fin qui abbiamo analizzato soltanto i primi due minuti dello spettacolo visto al Quirino che, in totale, ne conta centocinquanta, intervallo compreso. All’aprirsi del sipario si assiste alla scena che non t’aspetti: ecco, infatti, Elisa, la figlia di Arpagone, mentre consuma un audace incontro amoroso con il suo amante Valerio, in abiti discinti; lei, tutta baci e reggiseno, lui, petto nudo e tanta passione. Ma quel che salta all’occhio, oltre al filo del microfono che intralcia le carezze, è che i costumi sono moderni, allora si è portati a pensare che il regista abbia voluto ambientare la storia alla nostra epoca, forse venti o trent’anni fa, ma certamente non nel tempo in cui Molière la creò (1668). Eppure i due, appena cominciano a dialogare, parlano una lingua che non è quella del Seicento, ma non è neanche quella contemporanea e nemmeno quella dell’ultimo Novecento con la quale siamo cresciuti. È un ibrido che contrasta, e non poco, con la parte visiva. Questa è la chiave di regia che confonde e spiazza lo spettatore (ma anche lo avvicina e lo coinvolge), il quale, se da una parte è invitato a valutare la tragedia del denaro come fosse la sua, dall’altra gli crea un forte conflitto con la rappresentazione dei sentimenti filiali.
A Luigi Saravo, con questa lettura, interessa evidentemente mettere a fuoco soprattutto il devastante imperio economico di cui oggi siamo vittime consapevoli (un punto a suo favore); ma far usare ad Arpagone una terminologia da bancario o da consulente assicurativo non aggiunge molto al carattere già gretto, insensibile, meschino ed egoista del protagonista. La coscienza del quale, in questa edizione, gli parla a tu per tu, facendogli i conti in tasca, con il canto innocente di un coro (registrato) degli alunni dell’antica Schola canturum che invocano il Tan e il Taeg come suppliche, le aliquote degli investimenti in euro come salmi e le percentuali che producono gli interessi come fossero le orazioni quotidiane (una trovata divertente, sì). Salvo poi – e qui sorge qualche confusione – che il taccagno indichi, agli altri, il suo denaro in franchi, scudi sonanti e Luigi d’oro: e allora, mio caro Arpagone, se i tempi non corrispondono alle sinonimie, i conti non ti torneranno mai! Ma se l’adattamento linguistico invade il campo economico e costruisce nuove relazioni tra l’avaro e il suo denaro, lo stesso non è equilibrato per i rapporti sentimentali che coinvolgono molti protagonisti.
Ancora più evidente, infatti, è il contrasto che suscita il linguaggio delle imposizioni paterne sui figli vestiti con abiti moderni, quindi con figli del nostro tempo. «Tu sposerai Anselmo – impone Arpagone a Elisa – Come ti permetti a ribellarti alla volontà di tuo padre?». E poi, minaccioso, al figlio Cleante: «Se non sposerai la donna che dico io, ti diseredo». Sono frasi inverosimili se dette ai ragazzi della nostra epoca: troppo antiquate, che i giovani, nella migliore delle ipotesi, non prenderebbero mai sul serio. Sono frasi che ci hanno fatto inorridire quando le cronache ci hanno raccontato del delitto di Saman Abbas. E il triste pensiero rivolto alla povera ragazza pakistana, vissuta nella civiltà occidentale moderna (in netta antitesi con le abitudini della terra d’origine della sua famiglia), più volte è tornato alla mente, ascoltando l’egoismo di un padre nato e cresciuto nella seconda metà del Seicento e improvvidamente calato in un tempo che non gli appartiene più e dal quale ha assorbito soltanto il lessico bancario.
In questo contesto linguistico disorganizzato e visivamente innovativo, la regia, grazie a un risolutivo ed elegante congegno scenico, segue il testo con apprezzabile volontà: basta abituarsi alle scelte musicali che prediligono il rock agli archi di Lully; basta assuefarsi ai pantaloni attillati e leopardati (quelli che esaltano le forme naturali!) indossati da Frosina; basta accettare che di tanto in tanto i personaggi si scattino qualche selfie con il cellulare per ricordare i momenti più drammatici e salienti; basta soprassedere al vezzo di Arpagone che – si dice – ascolta vinili a 33 giri, mentre un grammofono è esposto a vista come arredo da camera. Tutte sfumature appariscenti che, è vero, contrastano con l’originale, ma che per fortuna non intaccano la supremazia di Molière. Quando, però, al finale, l’avaro cerca conforto nella legge, «la giustizia farà quel che deve fare», allora non si capisce più a quale giustizia ci si debba affidare: se a quella del Seicento che l’avrebbe difeso o quella di oggi che, senza neanche scomodare la Guardia di finanza, l’avrebbe condannato per maltrattamenti nei confronti dei suoi stessi figli.
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L’avaro, di Molière. Traduzione e adattamento di Letizia Russo. Con Ugo Dighero, Mariangeles Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Elisabetta Mazzullo, Rebecca Radaelli, Luigi Saravo. Musiche, Paolo Silvestri. Costumi, Lorenzo Russo Rainaldi. Scene, Luigi Saravo e Lorenzo Russo Rainaldi. Movimenti coreografici, Claudia Monti. Luci, Aldo Mantovani. Regia di Luigi Saravo. Produzione: Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Bolzano, Centro Teatrale Bresciano, Artisti Associati Gorizia. Al Teatro Quirino, fino a domenica 22 dicembre
Foto: «L’avaro», regia di Luigi Saravo (© Federico Pitto)