25 aprile 2024

«Anna dei miracoli» di William Gibson

24 aprile 2024

IL MIRACOLO DELLA SPERANZA

C’è un filo invisibile che lega l’animo delle tre donne: è la speranza. Un impeto determinante per la realizzazione del miracolo di cui William Gibson ci rende partecipi. Emanuela Giordano, regista presente ma non invadente, comprende questa esigenza e riesce a riprodurla in scena in maniera quasi visiva. Certo, non ce la può presentare come un personaggio o come un soprammobile, e nemmeno con una didascalia, eppure, il dramma, man mano che procede, si avvinghia sempre più forte al valore della speranza che diventa un’espressione nascosta nella fisionomia delle tre donne. E quando il miracolo avviene, si vede chiaramente che sul volto della ragazza, della madre e dell’istitutrice è stampato lo stesso marchio di risanamento: negli occhi increduli e nel sorriso accennato e commosso. Allora si capisce che la somiglianza fisica delle tre, non è un caso, ma una scelta precisa per trovare uno stampo comune che indicasse la via della speranza.

Anna dei miracoli racconta la sventura che colpì Helen Keller (1880-1968), la quale, al diciannovesimo mese di vita, si ammalò di meningite rimanendo vittima di cecità e sordità. Crescendo, per farsi comprendere dai genitori, la ragazza inventò dei segni convenzionali, dimostrando una forte volontà di comunicare. Successivamente, grazie alle doti di Anne Sullivan, un’istitutrice che le starà accanto per oltre mezzo secolo, Helen ottenne risultati davvero miracolosi. Nel 1904 riuscì perfino a laurearsi. William Gibson nel 1957 scrisse il dramma per la scena; e qualche anno dopo da quel copione nacque un famoso film interpretato da Anne Bancroft e Patty Duke. Da allora, anche in Italia, sono state molte le attrici che si sono misurate con il personaggio di Anna. Oggi è la volta di Mascia Musy, credibile e avvincente nell’affrontare l’adattamento assai condensato, e quindi molto intenso, che la Giordano ne ha ricavato per snellire la vicenda. I personaggi, che nell’originale sono circa una decina, qui sono ridotti ai quattro essenziali e il pathos monta immediatamente.

Il dramma di Helen è visto subito come inarginabile dal padre (Fabrizio Coniglio), l’unico che non cede alla speranza e che a volte rischia di cavalcare diffidenza e pessimismo, fino a sfiorare un’intraprendente maleducazione. All’opposto si pone la fragilità della madre (Laura Nardi) che fa da contraltare, ma fino a un certo punto. La sua speranza è la fede. Si intuisce che tra i due mancano i sentimenti di mezzo, che i tagli inferti hanno sopito. A volte si avverte lesigenza di un respiro altalenante che renda plausibili gli eccessi, soprattutto di lui: moglie e marito si misurano costantemente con argomenti incandescenti, pur utilizzando toni all’apparenza stemperati; a volte invece la rapidità del dialogo e la chiarezza del linguaggio scarno tengono alta la tensione, fino a rasentare la commozione.

Sono scelte dettate dalle esigenze di ridurre i testi più lunghi alle nuove abitudini teatrali, e naturalmente si va incontro a vantaggi e svantaggi. Tuttavia la riduzione della Giordano, se nel dialogo trova comunque un punto di forza che determina la riuscita dell’operazione, inciampa sulla figura dell’unico personaggio presente, ma non visibile: quel fratellino che all’inizio s’immagina stia nella culla e poi sparisce del tutto. E quando i due genitori si dicono di aver vissuto qualche giorno finalmente nella normalità (perché Helen s’è allontanata da casa con Anna), sembra che, senza più alcun accenno al piccolo, questi non faccia più parte della famiglia. Basterebbe, per esempio, che quando va a trovare la figlia nel capanno, la madre, invece dei fiori stringesse tra le braccia un fagottino con il neonato.

La Musy regala ad Anna un carattere assai fermo, nel quale la speranza sta nel credere in un metodo. Grazie a questo, incassa bene gli attacchi di presunzione del capofamiglia e tiene a bada le debolezze della madre di Helen: due chiare espressioni d’una stessa medaglia, che lei stessa definisce «un amore confuso». I suoi metodi di apprendimento sono esemplari, studiati nei particolari, eseguiti con estrema dovizia. Si vede una grande preparazione nello studio del personaggio. Meticoloso l’insegnamento del dare un nome alle cose: un esercizio che porterà Helen a uscire dal buio. Perché soltanto quando apprenderà un linguaggio sarà possibile che lei acquisisca una personalità.

Anna Mallamaci, interprete della ragazza cieca e sorda, anche se privata della parola, che è l’elemento fondamentale per un attore, riesce a costruirsi un linguaggio, con le espressioni, ora disperate ora incantate; ma anche con i movimenti dapprima selvaggi e poi sempre più armoniosi. In lei c’è un dramma, nascosto in un buio, protetto dal timore dei genitori, stretto nell’angoscia, ma c’è anche una caparbia volontà che è la sua speranza buona che la porterà a trovare, quando sente il rumore dell’acqua, l’anima delle parole nel silenzio di una nuova vita.

La regia, guidata dai ritmi incalzanti della recitazione, è giustamente alla continua ricerca di scorrevolezza: le situazioni si susseguono come se si volesse sfogliare le pagine di un libro. Tutto deve convogliare nel miracolo finale che è la fluidità dell’acqua. Purtroppo questa leggerezza che s’avverte nell’impostazione della Giordano viene frenata dalla scena di Angelo Linzalata, che con pareti massicce e pesanti rallenta la corsa che invece il dialogo esige sin dalle prime battute. (fn)
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Anna dei miracoli di William Gibson, adattamento e regia di Emanuela Giordano. Scene e luci, Angelo Linzalata. Con Mascia Musy (Anna), Fabrizio Coniglio (il padre), Anna Mallamaci (Helen), Laura Nardi (la madre). Teatro Parioli, fino al 28 aprile

Foto: Mascia Musy (al centro), Anna Mallamaci (in ginocchio) e Laura Nardi (a sin) © ???


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