LA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL «SOSPESO»
Quel che s’evince dalla prosa di Monelli – che io, sentendo la necessità di una condivisione diretta tra due persone, ho tradotto in forma di dialogo: perché un caffè non si dovrebbe mai bere da soli – è prima di tutto l’attitudine alla sacralità di un rituale, poetico sì, ma anche ossessivo: la ricerca di quel macinino; l’ammonimento sul tipo di chicco; l’avvertimento dell’acqua piovana; la liturgia del cucchiaino d’acqua fredda; la dottrina esasperata sull’ebollizione… tutti elementi che dipingono un quadretto di benevola stregoneria intorno a un (semplice in apparenza) bricco di caffè. Un rituale quotidiano che, se da una parte porta via del tempo a chi lo compie, dall’altra contribuisce alla solidarietà (non dimentichiamo questa parola, che fra poco ci tornerà utile) di un’intera popolazione. Ancora oggi in Etiopia, primitiva patria del caffè, la bevanda viene servita in continuazione, mattina e pomeriggio, ai passanti che sempre numerosi affollano i ritrovi comuni lungo le strade, dove una donna è intenta a riempire le tazzine con la miscela «sacra». Quella donna non è una qualunque distributrice di caffè, ma una delle prescelte «streghe di Smirne» che ha imparato l’arte della preparazione dai suoi predecessori.
Uno due trecaffè caffè caffè.Quattro cinque seilei lei lei.Sette otto novepiove piove piove.Zero.Nero.
Chissà se Eduardo De Filippo prese mai in considerazione che per evocare un buon caffè sarebbe stata necessaria una filastrocca per bambini. Con tutto il rispetto per il padre delle Sorelle Materassi, a Napoli, capitale dell’ironia, il caffè resta argomento serissimo. Eduardo lo sapeva bene e, infatti, la bevanda diventa in molte sue commedie elemento stimolante e aromatico per dialoghi e monologhi ormai memorabili. In Natale in casa Cupiello il risveglio del protagonista è disturbato dall’ignobile ciofeca rifilatagli dalla moglie Concetta. «Per fare una buona tazza di caffè, prima di tutto ci vuole il caffè», sentenzia Luca Cupiello ancora assonnato ma già indispettito dalla puzz’ ‘e scarrafune che sostituisce il consueto profumo aromatico. Ma, sotto sotto, anche quella ciofeca serve ad avviare un dialogo, a instaurare una conversazione. In Napoli milionaria! Amalia Jovine prepara il caffè per tutto il vicolo in una cuccuma gigante da 36 tazzine. Così il basso di don Gennaro si riempie di una moltitudine di gente che con la scusa del caffè, è pronta a raccontarsi i timori della guerra e le novità del contrabbando. Ma è all’apertura di sipario del secondo atto di Questi fantasmi che Eduardo scrive il suo assioma sentimental-filosofico sull’arte del caffè. E pur stando solo in scena sente il bisogno di confidarsi al professor Santanna, anima utile (è riportato in didascalia) a conservare il senso di solidarietà durante il rito del caffè.
Pasquale Lojacono, il personaggio interpretato da Eduardo, siede fuori al balcone. Davanti a sé, su un’altra sedia, c’è la macchinetta di stagno (stavolta quella da quattro tazze), che, perfettamente eretta come piccola sentinella sull’attenti, compie al suo interno l’impercettibile atto di distillazione della miscela: un’operazione che non si vede e non si sente, ma alla quale si presta molta attenzione, soprattutto tramite l’olfatto. È un’abitudine – lo era, per la verità: il passato purtroppo è d’obbligo – tutta napoletana quella di concorrere alla buona riuscita di un caffè con commenti e astuzie, incoraggiamenti e confidenze. A un pubblico meno ferrato in materia, è necessario chiarire che la cuccumella napoletana è quella che consente all’acqua si scendere dall’alto sulla polvere, di attraversarla, e di scivolare lentamente nel contenitore posto in basso, senza che il fuoco provochi ebollizioni durante questo filtraggio: un principio che asseconda le raccomandazioni della «vecchia strega di Smirne» decantate dal Monelli.
Fateci caso: anche al bar il caffè nella tazza vi arriva per discesa diretta, e mai dai bassifondi; segno che la pressione è dolce e mai aggressiva, come invece esige la moka che fa montare la bevanda, tradendo l’origine del rito. Il fuoco, infatti, che dal basso sprigiona le sue fiamme verso l’alto, è l’elemento rappresentativo di un inferno; dunque, cosa potrebbe sortire di buono in una bevanda che dagli inferi giunga fino alle nostre labbra? La macchinetta napoletana, o parigina, è formata da cinque elementi: la caldaia (recipiente per l’acqua che va sul fuoco) con manico laterale; la capsula interna bucherellata (in cui da una parte si adagia la polvere e dall’altra ospiterà l’acqua bollente); un filtro che s’avvita alla capsula per contenere il caffè; un raccoglitore, anch’esso con manico posizionato dal lato opposto al lungo becco che svetta eretto a 45°; infine, un coperchio da utilizzare soltanto in caso di caffè avanzato. Eduardo, nelle vesti di Lojacono, aggiunge un altro elemento, diciamo, estrinseco al brevetto: «Sul becco – spiega – io ci metto questo coppitello di carta… Pare niente questo coppitello, ma ci ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi è il più carico, non si disperde. Come pure… (e regala, quale segreta confidenza, all’invisibile interlocutore, l’ennesima astuzia sulla preparazione del caffè) prima di colare l’acqua che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di colarla, dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata. Un piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata, l’acqua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo».
Altra funzione cui ci rende partecipe Eduardo De Filippo, in suo scritto, è la tostatura. Era antica usanza – perché a comprarlo crudo costava di meno – abbrustolire il caffè in casa; oppure, una famiglia era addetta all’operazione per tutto il palazzo o, addirittura, per l’intero vicinato. Di solito l’incombenza veniva affidata a coloro che abitavano l’attico, o che possedevano un terrazzino o un balcone ai piani alti, perché i chicchi di caffè fresco, assai oleosi, sprigionavano un fumo talmente intenso da essere insopportabile in un ambiente chiuso o poco arieggiato. Inoltre, sempre per questioni economiche, affinché il caffè comprato non venisse bruciato da mani insicure e quindi da destinare al secchio dell’immondizia, tale esecuzione era di competenza del nonno, il maggior esperto in materia. Il quale, appollaiato sul balcone, con una mano agitava un giornale che fungeva da ventaglio per centellinare le calorie della carbonella posta nel fornello dell’abbrustolaturo, e con l’altra girava la manovella del cilindro metallico (bucherellato come uno scolapasta) dentro il quale rotolavano gli allegri chicchi di caffè.
«Girando la manovella – scrive ancora Eduardo – i chicchi si rovesciano su se stessi, cadendo e ricadendo sulla parete infuocata del cilindro, fino a raggiungere il giusto punto di cottura» che qualche nonno riusciva a cogliere concentrandosi sul rumore emesso dai grani a contatto col metallo. Oppure, il metodo classico per individuare l’impeccabile abbrustolatura, era quello di sincerarsi del colore: a manto di monaco. Eccolo di nuovo! La figura del monaco ritorna nella nomenclatura del caffè partenopeo; quel personaggio evocato dalle leggende per attribuire la paternità all’uso nostrano della bevanda contro il sonno, riappare quasi a voler ricordare l’antico mistero.
L’acuto osservatore avrà notato senz’altro come tra la dottrina della strega di Smirne e quella partenopea ci sia una grossa divergenza: il bollore. Alla turca, l’acqua comincia appena il suo movimento, alla napoletana invece si consiglia addirittura un’ebollizione di tre-quattro minuti; ma entrambe si attengono al divieto di porre la fonte di calore direttamente sotto la polvere di caffè. Alla turca, infatti, il fuoco si riaccende dopo che il caffè abbia sprigionato i suoi aromi nella cuccuma, sempre stando attenti a evitare l’ebollizione. A Napoli l’acqua bollita viene tolta dal fuoco prima versarla nel cilindro. È evidente che il rito originale abbia trovato la sua culla prediletta sotto le pendici del Vesuvio, dove sin dai tempi dei Fenici, le più antiche tradizioni vennero rivisitate secondo l’estro del momento. Altro particolare che il rituale arcaico prevede, e che per lungo tempo è stato rispettato, è il coinvolgimento dei cinque sensi. Già, perché il rito del caffè comincia con un’attenta osservazione (quindi, la vista) dei chicchi da prediligere, la scelta di quelli maturi, quelli migliori; poi con la tostatura si fa uso dell’udito, per ascoltare il rumore dei grani che rotolano sul metallo; quindi occorre sentire con il tatto la consistenza del grano, se lascia umida la mano o se si sbriciola; quand’è il momento di macinare sarà l’olfatto a essere inebriato dall’aroma appena sprigionato, e gli intenditori ne sapranno valutare la qualità; infine, solo attraverso il gusto si potrà decretare la sentenza.
S’era detto della solidarietà, che è il valore aggiunto del caffè, il senso emotivo che giustifica e sostiene la ragion d’essere della tazzulella ‘e cafè. E che trova a Napoli un’esigenza di fratellanza che in poche altre parti al mondo esiste. Partendo dal vocabolo, già si dovrebbe intuire che la parola caffè – come anche pizza – ha la forza internazionale di unificare i popoli. Le differenze sono minime: c’è chi dice coffee, chi café, chi kaffee, chi kafès, chi kavhe, chi kopè, insomma ovunque si va, un caffè non resterà mai incompreso. Magari si rischierà di bere una ciofeca, ma è l’unione che conta. Nel Napoletano, in qualunque casa, anche allo sconosciuto di passaggio, si offre subito il caffè: per metterlo a suo agio, per farlo sentire «di famiglia», per cominciare a dialogare, a conoscersi, per intrecciare un rapporto e rivelarsi, per mettere sul tavolo un anticipo sulla parola da dire, e soprattutto per allungare i tempi e dare un senso più gustoso alla veloce stretta di mano.
Questa necessaria ricerca di fratellanza diventò, nell’immediato Dopoguerra, l’espressione di un sentimento comune che si concretizzò nel cosiddetto «caffè sospeso»: il più eloquente segno di civile solidarietà. Il napoletano, andando al bar, poteva chiedere per sé, e per i suoi accompagnatori, un ristretto, un macchiato, un «in tazza fredda», un amaro, oppure un corretto cu na presa d’annese (con un goccio di anice), e in più poteva pagare un «sospeso». Ossia, offrire in anticipo un caffè allo squattrinato avventore che l’avrebbe consumato nel tempo. Era un segnale concreto, non soltanto di fratellanza (valore che dopo i bombardamenti tornò fervente), ma un invito alla cordialità, alla serenità tra la gente, un esorcismo ai mutamenti della fortuna che oggi tocca a me e domani a te, un sostegno poco più che morale a tutti coloro che la guerra aveva ridotto in miseria. E non erano pochi. I napoletani, con il caffè sospeso, inconsapevolmente, avevano istituito la civiltà del caffè; avevano gettato le fondamenta per una nuova repubblica partenopea basata sull’ideologia della generosità. La tradizione del «sospeso» è arrivata fino ai nostri giorni. Esiste ancora, e ultimamente è anche molto reclamizzata. Forse per questo il gusto è diverso. La generosità del caffè pagato allo sconosciuto oggi ha perso la genuina clemenza, la disinteressata comprensione; fa parte anch’essa di un business nascosto, triste e meschino: c’è chi bara, chi si fa pubblicità, chi ci fa la cresta: insomma, anche il «sospeso» è stato macchiato. (fn)