26 aprile 2024

Il rito teatrale del caffè (parte I)


ALLA TURCA, ALLA VIENNESE O ALLA NAPOLETANA?

Dalla regione di Kaffa al Golfo partenopeo: storia di aromatiche leggende

Caffè. Prima ancora di una bevanda, è il suono che accompagna il pensiero associato a ogni nostro risveglio; una sorta di sonoro rito mattutino, scandito dal ritmo sdrucciolo del serrato bisillabo che la nostra mente richiama per far schiudere gli occhi e andare incontro al buongiorno. Caffè deriva da Kaffa, il nome della regione della odierna Etiopia dove fu scoperta la magica pianta che anticamente gli indigeni raccoglievano e scambiavano per ricavarne materie prime con le carovane degli arabi nomadi, i quali le rivendevano nei villaggi che attraversavano, come «piccolo cacao». Da qui il nome fu mutato in kahwa, parola molto simile a quella che indica il cacao. Il nome esprime due opposti significati: bevanda che toglie l’appetito, ma che pure lo favorisce. Scientificamente, infatti, è stato provato che il caffè allo stato puro (cioè, senza zucchero) assopisce gli impulsi della fame, per questo motivo qualcuno azzarda che bere caffè aiuti a dimagrire, soprattutto perché la sostanza è priva di calorie. Viceversa, con lo zucchero, le sue alcaline stimolano i succhi gastrici aumentando così il senso dell’appetito.

Anche nel vocabolario italiano la parola caffè gode di qualche primizia: uno linguistico accertato, l’altro storico, che però molto s’arrampica fino ai rami più flebili delle leggende. Sicuramente è uno dei pochissimi sostantivi che termina con una «è» con accento grave, come tè (parola di origine cinesi), bignè e frappè (che però hanno chiare origini francesi). L’altro, più incerto, vuole che il primo caffè italiano sia giunto dall’Oriente per missiva. E dove? Naturalmente a Napoli, città che nel 1614, accolse con entusiasmo «epistolare» la novità del primo kahve. Si racconta, infatti che il musicologo Pietro Della Valle, romano di origine ma napoletano d’adozione, durante un interminabile viaggio in Terra Santa si fosse innamorato di una fanciulla che gli fece assaggiare una bevanda scura ed eccitante chiamata appunto kahve. Non si sa se la sua permanenza in Medio Oriente, durata ben 12 anni, fu per il gusto del caffè o per l’avvenenza della donna, o per entrambi. Tuttavia, in alcune lettere che in quel periodo spedì ai suoi conoscenti napoletani, egli decanta gli effetti della bevanda: «un liquido profumato che veniva fuori da bricchi posti sul fuoco, e versato in piccole scodelle di porcellana, continuamente svuotate (e riempite) durante le conversazioni che seguivano il pasto».

Risalgono a un periodo ben più antico altre teorie, storicamente, però, poco documentate, e suggeriscono il dominio aragonese (1445 circa) come quello che fece apprezzare il caffè ai napoletani. Infatti, Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo, che all’epoca in pratica deteneva la corona dell’intero Mediterraneo, dalla Catalogna alla Sicilia, quando si trasferì a Napoli (dove poi morì nel 1458), diede ordine alle navi provenienti dal Mar di Levante di fare scalo nel porto partenopeo, per poter assaggiare personalmente i prodotti orientali, tra cui il caffè, e metterli in commercio anche nel regno di Napoli. Ma questa diceria non trova riscontri attendibili.

Riguardo alla storia del caffè, una data più certa è il 1570, e non ha nulla a che fare con Napoli, ma a Napoli ci riporterà con avvenimenti accertati: questa indica l’anno in cui un commerciante padovano, tal Prospero Alpino, sbarcò a Venezia portando alcuni sacchi con i famosi chicchi dall’Oriente. Da allora in Laguna si cominciò a bere l’aromatica bevanda, ma non tutti l’apprezzarono, tant’è che per molto tempo fu bersaglio di critiche. Dal gusto troppo amaro e dal colore poco allettante fu immediatamente bandita dalla tavola dei conventi: l’eco della «scomunica» clericale governò fatalmente le dicerie popolari che la bollarono come bevanda del diavolo.

Tuttavia, mentre viveva ancora il periodo buio, durante il quale faticava a trovare fiduciosi buongustai, si sperimentò che la polvere di caffè fosse molto utile per rimedi casalinghi. Così si apprese che tra i suoi poteri c’era quello di allontanare pulci e formiche, di rinvigorire i pigri e di restituire ai legni scuri un colore omogeneo. Conquistò una posizione di rispetto quando fu rivalutato anche in ambito medico: furono loro, i medici sapienti, a contrastare efficacemente i giudizi del clero affermando che il caffè avesse numerose proprietà benefiche. Nel corso degli anni si capì pure che il suo gusto, come elemento essenziale per le bevande ristoratrici, era determinato dalla tostatura dei grani. L’esatta colorazione del chicco fu scoperta solo qualche secolo dopo. Comunque da Venezia, dove il piccolo commercio faticava a decollare, il caffè fu richiesto alla corte viennese. E, da lì, diffuso in tutto l’impero austro-ungarico. Da quel momento, soprattutto tra gli aristocratici, il caffè divenne un’usanza quotidiana.

Durante questo lungo periodo ammantato dal mistero, quando le dicerie sul caffè erano assai più delle notizie certificate, si raccontava che un priore di un monastero partenopeo – più devoto a razzolar male che a predicar bene! – disobbedendo agli ordini impartiti dal clero, sperimentò l’uso della bevanda «sopra de’ suoi monaci, che per troppo dormire trascuravano il coro». Facendo lor credere che gargarismi al caffè avrebbero sciolte dal torpore del sonno le corde vocali, invitò i cantori a far uso della bevanda che essi per ubbidienza tracannarono. Così, dopo le orazioni del mattino, persero l’abitudine del pisolino per correre più lesti alla schola cantorum.

Verso la fine del XVII secolo a Vienna fu inaugurato il primo Kaffeehaus, cosicché, nel 1752, alla nascita della principessa Maria Carolina, nella capitale austriaca il caffè aveva già conquistato un posto d’onore non solo all’Hofburg, ma in tutti i salotti aristocratici. La figlia di Maria Teresa, quindi, ben lo conosceva quando, appena sedicenne (1768) sposò Ferdinando di Borbone, re di Napoli. Fu lei che introdusse nella cultura partenopea l’uso del caffè e quando sua cugina Maria Antonietta, da Parigi, le suggerì di assaggiarlo con il kipferl (cornetto) o la brioche inzuppata, i napoletani, che mai rifiutarono le buone tradizioni straniere, cominciarono a studiare l’elemento, a sperimentare tostature e macinatura per poterne godere della migliore qualità.

Il punto è questo. Perché a Napoli il caffè trovò immediatamente terreno fertile, anzi palati ben disposti, più che in altre città europee? La risposta folcloristica è semplice. Perché a Napoli il caffè raggiunse il popolo (o il popolo mise le mani sul caffè!) prima che altrove. Forse quando veniva scaricato dalle navi qualche sacco potrebbe essere sparito, oppure caduto per via durante il trasporto: non si sa. Certo è, però, che le migliori tostature dei chicchi di caffè si sentirono prima nei vicoli lerci e puteolenti, a ridosso del porto, che a Palazzo reale (questo penso sia possibile). E quando nel 1771 la regina volle dare un gran ballo alla Reggia di Caserta, fu scelto per l’occasione un mastro tostatore direttamente prelevato dal volgo: vox populi, vox Dei! La storiella è molto affascinante, ma poco credibile.

Leggo da altre fonti (ma in rete ognuno riprende dall’altro) che il ballo del 1771 sarebbe indicato quale convivio per l’inaugurazione della mescita del caffè nel Regno. Mi pongo subito una domanda: possibile mai che la regina Carolina pe’ se piglia’ na tazzulella ‘e café abbia aspettato più di tre anni? Mi pare inverosimile! Altrove trovo scritto, invece, che durante quel ballo il caffè venne servito da «giovani camerieri in giacca bianca». Ad affermarlo è una scrittrice inglese dell’epoca, invitata al raduno regale, Lady Anne Miller, la quale in una lettera scrive questo particolare a lei inconsueto; tuttavia, nella missiva non si dice che il caffè venne servito in quell’occasione per la prima volta.

Maria Carolina con Re Ferdinando e sei figli (Museo di Capodimonte)

Al di là delle leggende e delle storie che hanno arricchito il mito del caffè, si sa per certo che l’arbusto di questo aromatico chicco esige un vento umido. Lo scirocco che soffia da sud est è il miglior viatico allo sviluppo della pianta. Quando le riserve dei francesi, in terra d’Africa, cominciarono a scarseggiare, essi studiarono l’ambiente più adatto dove riprodurla. Furono loro a portare i primi esemplari lontano dalle zone calde della penisola arabica o dell’Etiopia. Così il caffè, di provenienza esclusiva del Levante, cominciò a raggiungere il Mediterraneo anche dal Ponente, grazie alle piantagioni delle isole della Cajenna, nell’America Latina.

Furono, però, i turchi a cimentarsi per primi nella realizzazione di una mistura di caffè da bere calda ricavata dalla polvere dei grani essiccati, e ancora oggi preparano l’infuso esattamente come allora. Alla turca. Cominciarono con la polvere dei chicchi freschi, ma presto scoprirono che i migliori erano quelli invecchiati tra i sette e i dieci anni, quando la miscela esprime qualità gustative e olfattive molto differenti, più intense e fragranti. In un articolo del 1927, lo scrittore Paolo Monelli racconta di una «vecchia strega di Smirne» da cui egli apprese l’arte primordiale del preparare il caffè, proprio mentre la città stava bruciando e rimanevano in piedi soltanto poche abitazioni alla marina.

Monelli, durante la Grande guerra, fu ospite, in una casa grande e bella, di una numerosa famiglia del luogo, con donne di tutte le età, tanto che non si poteva comprendere chi fossero le figlie, chi le nuore, chi le suocere e chi le mogli dell’unico uomo venerato prima degli altri. Terminata la cena, nel cortile posto al centro della costruzione, veniva servito il caffè.

– Occorre innanzi tutto un macinino turco. Ne troverai degli ottimi al bazar.
– Ma l’incendio sta devastando la città: come faccio a trovarlo?
– Non preoccuparti, mandaci Mohamed. Lui è pratico e affidabile: saprà trovarti il pezzo migliore anche in mezzo ai carboni ardenti.
Non a caso l’autore identifica la vecchia con una strega. Costei, infatti, lungi dall’essere una personalità malefica, si esprime con il linguaggio tipico di certi rituali non lontani dalla magia nera, e mai privi di una rigorosa teatralità.
– Poi ci vuole il caffè secco, scuro, aggressivo.
– E come si distingue quello di qualità?
– Lo stringi nel palmo. Se ti lascia la mano asciutta e profumata è buono, altrimenti non è ancora pronto. E se il chicco ti si sbriciola tra le dita, non t’azzardare ad usarlo per il caffè.
– Per carità, mai. E poi?
– Quando l’avrai macinato, che sembra la cipria turchina usata dalle donne nel deserto per tingersi le chiome, metti sul fuoco un cuccumino pieno d’acqua zuccherata e lascialo riscaldare lentamente. Meglio se recuperi l’acqua leggera della pioggia, come usavano le antiche carovane. E guai a te se la lasci andare in ebollizione.
– Come, come? L’acqua non deve bollire?
– Mai e sempre.
– Come sarebbe a dire, mai e sempre?
– Esistono tre gradi di bollore: nel primo, le bollicine salgono alla superficie come occhi di pesce ammiccante nel plenilunio; nel secondo, le bollicine tenzonano come perle in una coppa d’argento; nel terzo, l’acqua ondeggia e borbotta come una suocera.
– E quale dei tre gradi è indicato per la perfetta bevanda?
– Osserva il primo stadio: quando le bollicine si radunano sugli orli, togli il bricco dal fuoco e buttavi dentro la polverina di caffè, agitando bene, ché non si formino grumi. Se desideri poi che l’infuso sia veramente di tuo gusto, a questo punto, devi recitare un esorcismo che m’insegnò un santone d’Arabia; ma giurami di non riferirlo a nessuno. Dopo aver rimescolato con pazienza, rimetti al fuoco, ma sempre attento a non far bollire la mistura. Quando vedrai di nuovo le bollicine, simili a cristalli neri, radunarsi sull’orlo del liquido, togli il caffè dal fuoco e versaci subito un cucchiaino d’acqua fredda, affinché, come dice il poeta, la giovinezza dell’acqua si rinnovi.
– Pronto il caffè?
– Attendi mezzo minuto e mesci delicatamente l’infuso nelle tazzine degli ospiti e vedrai, premio del tuo lavoro, il fiore bruno della schiuma, il kaimaki, distendersi sulla negra bevanda a testimoniare che il caffè è stato fatto secondo il rito. (fn)

Fine prima parte

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