FELICE DI POTER DIRE LA VERITÀ A DIO
Marco Belocchi sceglie la sala del teatro dei Documenti per rappresentare i due brevi atti unici di Maria Letizia Avato, entrambi tratti da racconti della stessa autrice, e legati a un unico tema, indicato nel sottotitolo: Quando tutto ebbe inizio. Il tutto si riferisce alla vita, prendendo spunto dalla creazione di Dio, e cercando di tornare alle origini di un Amore puro, «necessario come il pane» (dice il poeta), e protetto dalla benedizione della Poesia. Ma siccome dalla settimana dedicata alla Genesi, secondo la tradizione biblica, ogni cosa è già avvenuta, prima di tornare al punto di partenza, occorre chiudere questo ciclo vitale che ci compete, perché evidentemente è sfuggito dalle mani del Creatore e il male regna ormai ovunque: così Anno Omega segna il momento della fine. Dio, nel libro dell’Apocalisse, si definisce l’alfa e l’omega, prima e ultima lettera dell’alfabeto greco, ossia il principio e la fine.
Ed ecco che Belocchi, nella costruzione dello spettacolo, decide di chiudere il ciclo prima di riaprire una nuova era, accompagnando un personaggio apparentemente folle, Felice (interpretato dal magnifico Maurizio Castè), di cui si dice essere infermo di mente, davanti ad Ambrosius, il Signore e padrone (Paolo Ricchi), un artista ubriacone, distratto dalla ossessiva ripetizione delle sue imprese creative, che dipinge e ridipinge su una tela di cui egli stesso esalta le demenziali bellezze. Dio, eternamente con il pennello in mano, viene affrontato benevolmente da Felice che lo mette in guardia sulle scelleratezze che il genere umano sta commettendo sulla Terra. Occorre, quindi, farne un’altra che però non abbia la stessa perfezione della precedente, altrimenti potrebbe rischiare di subire la stessa sorte. Forse bisogna trovare una differente forma, più adatta, che meglio rappresenti il dolore. Il folle può dir tutto al suo re, ed è ben felice di poter dire la verità a Dio. L’atto si conclude con un particolare assai interessante e che sarebbe corretto non rivelare.
Terminato, quindi, il ciclo dedicato alla fine del tutto, si apre la finestra sul principio di una nuova creazione: momento in cui libere cellule appena nate cercano di assemblarsi, non per ritrovare la nuova forma di uomo e di donna che già ha dato frutti non proprio eccelsi, ma sarebbe meglio coagularsi in un essere capace di riprodursi da solo senza necessità di accoppiamento: avendo noi già tentato di abolire molte diversità di genere (particolare da non sottovalutare). Le anime novelle, però, richiamate dall’amore e suggestionate dalla poesia ricominciano ad avvertire il desiderio di incarnarsi e di accoppiarsi. E il ciclo maledetto si ripete: segno che la vita sarà sempre dominata dal contrasto tra male e bene.
Al di là dei discorsi filosofici e delle teorie teologiche su cui si basano le intuizioni di Maria Letizia Avato, i suoi testi risentono di un’aurea letteraria molto alta. Forse troppo. Nel primo atto, «Tutti pensarono, tutti credettero», sembra di partecipare a un racconto di Dostoevskij: c’è il narratore (che è Marco Belocchi) e ci sono i due personaggi che prendono vitalità dalle sue parole introduttive e poi dialogano tra loro, ascoltano la voce dello scrittore e si comportano di conseguenza: ciascuno diventa la coscienza dell’altro, che ne spia il carattere, le intenzioni e le debolezze. Tuttavia la costruzione scenica è affascinante. Il regista riesce a sfruttare le caratteristiche del teatro, contrappone uno spazio dedicato al superfluo e l’altro alla creazione del dialogo, che è il Verbo che porta avanti ogni rapporto; riesce con un abile gioco di luci a restaurare le atmosfere teatrali del racconto e trova l’intesa con il pubblico grazie al valore squisito di alcune sfumature sarcastiche. Poi, quando la recitazione di Casté prende quota al centro della sala, la teatralità decolla e l’applauso del pubblico ne è stato il coronamento.
Foto: Paolo Ricchi e Maurizio Castè (© ???)
