LA REGIA DI GIORDANI SMORZA LA VIVACITÀ DEL TESTO
L’inaugurazione della stagione del Teatro Manzoni di Roma ha richiamato qualche personaggio del passato: nel foyer affollatissimo si sono distinti Barbara Bouchet e Franco Oppini, ma soprattutto Paola Quattrini ha rispolverato in me ricordi di un teatro di genere oggi meno frequentato, ma che una volta era di casa al Sistina di Garinei e Giovannini. C’è un cadavere in giardino di Norm Foster, tradotto e adattato in un ambiente romano, dove si è pronti a chiamare il 3570, assomiglia vagamente alle commedie scritte da Neil Simon e Ray Cooney. In particolare, durante lo svolgersi dello spettacolo, proprio per queste coincidenze (Quattrini e 3570), la memoria è corsa a un lontano «Taxi a due piazze» che vidi e rividi almeno tre volte: era interpretato da Johnny Dorelli, Paolo Panelli, Martine Brochard e, appunto, Paola Quattrini. Tra gli altri c’era anche un immenso Toni Ucci, amico adorabile, oltre che attore coi fiocchi.
Un paio di domande: perché proporre un prologo, assolutamente personale, che con la regia di Silvio Giordani c’entra ben poco? È sufficiente la presenza in platea di un’attrice del passato per un’introduzione alla recensione di una commedia di cui lei è stata soltanto spettatrice? Qualsiasi giustificazione del sottoscritto non reggerebbe. Eppure, un motivo c’è: il mio prologo fuori tema sta al testo di Foster come i due siparietti iniziali proposti in proscenio stanno al fulcro della commedia. Durante i primi minuti di «C’è un cadavere in giardino», infatti, si assiste a due scenette, stile anni Quaranta (anche se la seconda ricorda più una moderna televendita), poco esplicative, che non aggiungono particolari essenziali alla trama che poi si svolgerà in scena. Mi si potrà obbiettare che servono a far capire che la coppia protagonista, prima degli agi economici, viveva in povertà; mi si potrà obbiettare, pure, che spiegano quale sia stata la svolta della loro vita; ma – in tutta franchezza – conviene mostrare al pubblico due piccole appendici di un teatro d’antan, completamente differenti (nello stile, nei ritmi e nel linguaggio generale) dal corpo della commedia, che, invece di chiarire una trama neanche troppo complicata, stridono e confondono a causa del loro forte contrasto visivo? Non sarebbe stato meglio aprire il sipario direttamente sulla scena definitiva e, magari – se necessario – aggiungere una battuta al testo per spiegare quel che s’era cassato all’inizio?
Quando poi la ricca casa dei coniugi Selvaggi si rivela al pubblico, con la fotografia sbiadita (perché non perfettamente illuminata) del giardino sul fondo e le porte di sinistra della grande sala con maniglie differenti (una in ottone e una di plastica bianca!), allora si intuisce il livello di attenzione con cui è stato curato l’allestimento. E la rabbia monta e la delusione cavalca. Tornano, quindi, furenti, i ricordi di Garinei e Giovannini, delle scene di Coltellacci, delle prove generali col pubblico di amici, che servivano all’équipe per trovare equilibrio e precisione affinché si evitassero brutte figure di fronte agli spettatori della première, perché il debutto era un evento sacro e doveva essere perfetto. Ma queste sono nostalgie!
Il testo di Foster, anche se non è all’altezza né dei Simon né dei Cooney, contiene uno spirito giocoso, tipico della commedia degli equivoci, vivo ed effervescente, centrato sia dalla caratterizzazione della cameriera di Maria Cristina Gionta, sia dalla spumeggiante intraprendenza dell’amica Ruby di Valentina Maselli. Loro due, più dei protagonisti, sono riuscite a trasmettere il senso frizzante della scrittura, che purtroppo non è stato «acciuffato» dagli altri. Molte battute scritte sono cadute nel vuoto («Torno alle fatiche manuali», per esempio) a causa di ritmi che scivolano su toni poco adatti. Miriam Mesturino, eroica protagonista, ce la mette tutta, è tenace, ma il suo bagaglio di preparazione, pur se solido e allenato, è troppo personale e, giustamente, fatica a dettar tempi e toni per due. (fn)
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C’è un cadavere in giardino di Norm Foster, con Sergio Muniz (Aldo Selvaggi), Miriam Mesturino (Cinzia Selvaggi), Maria Cristina Gionta (la cameriera Berenice), Valentina Maselli (Ruby del Vecchio), Giuseppe Renzo (Geremia Castelli), Luca Negroni (Il tenente Piccione). Scene, Mario Amodio; costumi, Lucia Mariani; regia, Silvio Giordani. Teatro Manzoni, fino 22 ottobre
Foto: Valentina Maselli, Luca Negroni, Maria Cristina Gionta, Giuseppe Renzo; (in basso) Miriam Mesturino e Sergio Muniz (© ???)