ROBERTO LATINI DETERGE LA VANITÀ UMANA IN UNA VASCA PIENA D’ACQUA
La parola chiave per leggere l’accostamento che Roberto Latini fa dei testi di Leoncavallo e di Pirandello è la vanità. Sia Pagliacci, opera lirica dove la voce tenorile intona il famosissimo «Ridi, pagliaccio, sul tuo amore infranto», che All’uscita, commedia in cui due anime riflettono, nell’aldilà, sul valore dei sentimenti dei vivi, hanno come comun denominatore la vanità umana, nelle due accezioni del suo significato. Nel primo caso, la vanità, ossia il compiacimento di sé e delle proprie qualità – in questo caso, ferite – porta un pagliaccio tradito dalla moglie ad uccidere il rivale. È la storia che Leoncavallo visse da bambino, assistendo all’uccisione del suo tutore, e che anni dopo raccontò in musica, costruendo un dramma all’interno di una commedia, così che la realtà potesse irrompere nella finzione teatrale. Nel secondo caso, la vanità è l’inconsistenza dei sentimenti dei vivi, i quali sentono la necessità di edificare tombe, non per conservare le spoglie dei loro cari (così come si crede: «di noi poveri morti, dopo un po’ di tempo, che volete che resti in quelle fosse», dice lo spirito filosofo), ma per custodire e proteggere i loro sentimenti, che altro non sono che vane illusioni, ancor più vane delle anime dei defunti.
Con un «doppio carpiato» pirandelliano, Latini ricostruisce il dramma dei Pagliacci come fosse verità teatrale che si riflette poi nell’inconsistenza della morte reale. «La commedia è finita», esclama Taddeo a tragedia appena consumata, passando la parola alla giocosa «meraviglia» del filosofo che sullo stesso argomento tesse sofisticate teorie. Da una parte il più classico dei tradimenti: lei tradisce lui e lui uccide l’amante, un caso talmente convenzionale, da diventare stereotipo da palcoscenico; dall’altra, invece, lei tradisce lui e l’amante uccide lei. Sì, perché nel frattempo il marito è già deceduto e l’amante, a quel punto, ha il terrore di ritrovarsi nel ruolo dell’altro, ossia del cornuto!
Due casi simili che si specchiano in una vasca piena d’acqua sulla quale i pagliacci sono gli unici capaci di camminarci sopra, restando per sempre in piedi, perché loro sono la finzione della vita, l’apparenza che si erge e si mostra, quella che si eleva dalla vanità del sottosuolo che invece nasconde la verità; mentre gli spiriti pirandelliani affondano nell’acqua, ci sguazzano dentro, proprio come il Ciacco dantesco che giace a terra in una pozza d’acqua e la sua ombra vana «par persona». Tuttavia, le due anime che Pirandello mette a confronto sono serene, tranquille, addirittura divertite dalle tragedie della vita. Beati, se la ridono delle ridicole vicende umane, alle quali assistono sdraiati in una platea piena d’acqua. Una sorta di piscina sotto il palcoscenico. A tal proposito, non possiamo sapere se Roberto Latini, nelle astrazioni che precedono un disegno scenico, abbia ipotizzato di allagare la fossa dell’orchestra di un teatro d’opera, ma l’intenzione dell’allestimento di questo spettacolo (repliche fino a domenica al Vascello di Roma) spinge lo spettatore a sospettare che l’azione pirandelliana si svolga contemporaneamente a quella descritta da Leoncavallo: una nella fossa allagata e l’altra sul palcoscenico, zattera di salvataggio della finzione della vita.
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Pagliacci. All’uscita da Leoncavallo e Pirandello; di Roberto Latini; con Roberto Latini, Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati; musiche e suono Gianluca Misiti; luci e direzione tecnica Max Mugnai; regia, Roberto Latini. Teatro Vascello, fino all’8 ottobre
Foto: © Manuela Giusti
Pubblicato anche su Quarta Parete il 4/10/23