UN GIAPPONE IN LOTTA TRA TRADIZIONI E CAMBIAMENTI DEL DOPOGUERRA
Nel nostro immaginario cinematografico è difficile pensare a un film giapponese che tratti un argomento quotidiano/casalingo dello stesso genere di quelli girati da Frank Capra quindici anni prima: naturalmente con ritmi e ironie molto differenti, ma nemmeno troppo distanti dalle caratteristiche della commedia hollywoodiana, evidentemente sbarcata, e apprezzata, nel Sol Levante dopo il conflitto mondiale. Lo si evince soprattutto dai costumi che indossano i protagonisti della vicenda narrata da Yasujirō Ozu. Alcuni prediligono abiti europei e altri, soprattutto le donne, il classico kimono ricamato a fiori; alcuni calzano scarpe stile Ferragamo, altri i tipici geta di legno o i sandali infradito con calzino bianco. Violente innovazioni del dopoguerra che hanno fatto breccia anche nella quotidianità familiare dei cittadini.
Presentato alla Festa del Cinema nella categoria riservata ai restauri storici delle vecchie pellicole, Il sapore del riso al tè verde è un film del 1952 sulle abitudini tradizionali dell’educazione giapponese, rivista con l’occhio emancipato di chi ha recepito la lezione di una cultura straniera. Fino al dopoguerra le ragazze venivano indirizzate al matrimonio tramite un accordo tra i genitori dei futuri sposi, ed è così che Mikichi, un uomo di umili natali, diventa marito di Taeko, ragazza cresciuta nella capitale. I due vivono insieme, ma senza nessuna attrazione l’una verso l’altro. Lui è distratto dagli impegni lavorativi, lei dalle chiacchiere con le amiche. La giovane nipote Setsuko, che legge libri tradotti (ossia stranieri), ormai in età di matrimonio, nell’infelicità coniugale dei suoi zii, trova la forza di ribellarsi a questa imposizione primitiva, portando qualche scompiglio in famiglia apparentemente scandaloso, ma molto meno dannoso del comportamento di Taeko che pur rimanendo fedele al marito, non perde occasione di deriderlo anche pubblicamente.
Ozu, appena sette anni dopo la terribile disfatta, è orgoglioso comunque di poter mostrare un Giappone completamente risanato dalle ferite belliche. E lo fa usando inquadrature sia di stile moderno (soprattutto nei piani americani), ma attenendosi a regole ferree nelle riprese degli interni casalinghi, dove predilige il gioco di ombre. Così la gente per strada sorride e va al teatro kabuki a godersi le giapponeserie da palcoscenico, si concede anche un pomeriggio al nuovo velodromo per le gare di ciclismo, addirittura alle arti marziali, a Tokyo, si preferisce ora il baseball: segno che gli americani non sono andati mai via. E il movimento della camera è continuo e inarrestabile. Ma tra le mura domestiche, tutto è più severo, regna ancora l’educazione imperiale; scalzi, seduti a terra e rigorosamente si mangia il riso con le bacchette.
L’occhio realistico del regista si sofferma anche sui rischi che potrebbe innescare il gioco d’azzardo: un tarlo del dopoguerra. Una primordiale sala Bingo è allestita in un locale assai triste e squallido ed è gestita da un ex soldato, di cui Mikichi era capitano, il quale però avverte: «La gente si diverte, ma qui dentro regna la solitudine. Questo diversivo non è un bene per la società.» Era il 1952, ricordiamolo! Meglio non perdere di vista le più sane origini.
Foto: Keiko Tsushima (Setsuko) e Shin Saburi (Mokichi)
Pubblicato anche su Quarta Parete il 19/10/23