LA REGIA DI SCARAMELLA DONA UMANITÀ A SHYLOCK
A pochi giorni dalla inclemente sentenza che «condanna a morte» il Globe Theatre, ritroviamo sul palco del Teatro Olimpico, che ospita Il mercante di Venezia, quello stesso scenario che tante volte ci ha affascinato durante gli spettacoli proposti nella struttura elisabettiana di Villa Borghese, comprese le due robuste colonne che intralciavano la visuale a tanti discreti spettatori delle tribune laterali. Sembra un gioco del destino, invece, altro non è che la forza di sopravvivenza del teatro. Sono tanti i personaggi che ogni sera muoiono sul palcoscenico per poi tornare vivi per la recita successiva: stavolta il prodigio s’è manifestato per un intero teatro, che da una parte se ne sta lì, abbandonato all’incuria di una magistratura troppo lenta, in attesa d’essere abbattuto, mentre dall’altra continua ogni sera ad accogliere storie e a raccontarci vite, prendendosi beffa di quel burocrate «miscredente» (del teatro e della cultura) che ne ha sentenziato la distruzione, secondo una giustizia fredda, assoluta e inflessibile.
Ovviamente non si tratta della stessa giustizia educatrice che esamina il caso dell’ebreo usuraio, protagonista della bella commedia shakespeariana curata dalla regia di Loredana Scaramella, la quale preferisce mettere sotto la lente d’ingrandimento meccanismi e dettagli della vicenda economica e razziale, rispetto agli intrecci amorosi di Porzia, Nerissa e Jessica. Scaramella, anche attraverso un’attenta traduzione e un adattamento controllato, esalta la parte tragica della commedia, quella che solitamente viene adombrata, forse per timore di innescare polemiche sulla diversità di razze e di religioni, ma che oggi, invece, diventano argomenti necessari per aprire un dibattito, anche ironico – se mai ne fossimo all’altezza – sulle motivazioni che lo scellerato Shylock espone prima ai suoi detrattori e poi davanti alla corte. Seguendo bene il suo discorso, così come è portato avanti in maniera cristallina dall’ottimo Carlo Ragone, in questa metodica edizione, non è vero che i cristiani sono belli, bravi e buoni e i giudei sono brutti, sporchi e cattivi; non è vero che i primi sono i giusti e i secondi sono i disonesti: Shylock, nelle sue teorie segue logiche precise, matematiche; e se la somma degli insulti ricevuti non è più valutabile in «un’alzata di spalle», come dice, ma pretende un atto vendicativo, allora ci si potrebbe schierare anche dalla sua parte. Addirittura, non sarebbe un’empietà sospettare che il finale, tutto a vantaggio del sistema cattolico cristiano (o catto-democratico!), penda esageratamente da una sola parte, quella dei belli, bravi e buoni.
La riflessione, poi, rischierebbe di uscire fuori tema e di disperdersi in vicoli oscuri se si paragona l’esercizio di Shylock con quello delle nostre banche – e relativi tassi d’interesse – alcune delle quali addirittura benedette da Santa Romana Chiesa! Meglio tornare a Shakespeare e alla chiara regia della Scaramella che pone la vicenda alla fine dell’Ottocento con bombette e abiti tipici inglesi, l’ebreo indossa un elegante frac. Il contrasto che crea la scelta di sartoria con la scena lignea, in verità, allontana dalla trama il clima veneziano e quello dei dintorni, descritti dall’autore, a vantaggio di un luogo immaginario più vicino alla Londra post-dickensiana. Tuttavia, appena compresa la trasposizione, la Venezia di cui si parla in scena potrebbe anche nascondersi dietro una delle due colonne. Così, ciò che vediamo «è la terra dei nostri desideri, della felicità, del piacere, è la terra dove lasciamo tutte le preoccupazioni», e si chiama teatro, anche se la canzone la chiama Youkali. Efficace e con sfumature spesso sarcastiche è l’accompagnamento musicale dal vivo del Trio William Kemp, che intrattiene il pubblico anche durante l’intervallo.
Eppure l’aspetto più pregevole dello spettacolo è la leggerezza della recitazione di un gruppo di attori ben affiatato. Sara Putignano, nel ruolo di Porzia, pur se viene presentata come una delicata e intoccabile Venere botticelliana, con grande scioltezza, prima dirige l’orchestra dei suoi pretendenti e poi regola l’andamento del processo finale. Manovra con abilità manageriale tutti gli uomini (compreso Shylock): nella sua recitazione asciutta si legge bene l’intelligenza di una donna e mai la subdola astuzia femminile (malgrado il sotterfugio dell’anello), né s’abbandona a facili moine. Sorprendente il Lancillotto di Federico Tolardo che tra il buffone di corte e il mimo da palcoscenico accarezza con nostalgia la comicità dei grandi del cinema muto. Bravi tutti gli altri: Donato Altomare, Mimosa Campironi, Diego Facciotti, Augusto Fornari, Paolo Giangrasso, Roberto Mantovani, Matteo Milani, Ivan Olivieri, Loredana Piedimonte, Mauro Santopietro, Antonio Sapio.
Carlo Ragone già lo abbiamo nominato, ma la sua interpretazione merita un approfondimento. È uno Shylock nuovo, diverso, pieno di malinconie; un personaggio in cui, per la prima volta (per quanti ne abbia visti a cinema e a teatro), la scelleratezza della sua proposta nasconde il senso di un giusto riscatto, quello di un uomo davvero sofferente – se non fosse ebreo, si direbbe un povero Cristo! – che si batte per far valere il suo rispetto e la sua dignità da sempre calpestati.
Due note dolenti. La sera del debutto è stata disturbata dall’eccessivo volume dei microfoni che, oltre a sfregiare il viso di tutti gli attori, hanno anche rintronato l’udito degli spettatori delle prime file, obbligati ad ascoltare le voci provenienti dalla casse di amplificazione piuttosto che dal palcoscenico.