GINEVRA, QUALCUNO FORSE TE L’AVEVA GIÀ DETTO!
Wikipedia informa che Ginevra Elkann «è una produttrice cinematografica e regista italiana. È la nipote di Gianni Agnelli, figlia di Margherita Agnelli e di Alain Elkann, sorella di John e Lapo», ergo parente stretta della Fiat, che non è la divina fiat lux – un bel nome per una casa di produzione cinematografica – ma proprio quella delle automobili. L’introduzione alla recensione del film non vuol essere uno sterile pettegolezzo fine a se stesso, utile soltanto a mettere in stretta relazione il ruolo del regista con quello del produttore, ma le parole virgolettate contengono un nesso ben più profondo tra la genealogia della Elkann e il tema del film, in questione. Te l’avevo detto, che contiene le figure dei due principali artefici dell’opera in un unico nome (quindi, un film fortemente voluto dal produttore e regista), è una pesante accusa alla figura materna. Naturalmente ci asteniamo dal voler prendere in considerazione le attitudini materne di Margherita Agnelli, figlia dell’Avvocato, ma la tentazione di rivolgerle un pensiero vien forte.
Scacciato il lato deleterio della curiosità, addentriamoci nella critica, perché nell’immaginario cinematografico della Elkann ci sono varie figure materne e non tutte – ce lo auguriamo – possono essere sua madre. C’è la mamma ossessionata (Valeria Bruni Tedeschi) da una decadente pornostar che ricorda Cicciolina (Valeria Golino) e da Dio, che è riuscita a portare la figlia (Sofia Panizzi) alla bulimia; c’è la mamma alcolizzata (Alba Rohrwacher) che non sa come amare suo figlio (Andrea Rossi) e anche il marito (Riccardo Scamarcio); e c’è la «mamma mostro» (l’unica che non appare mai, se non in polvere, dopo la cremazione!), che con il suo carattere forte ha spinto il figlio (Danny Huston) a prendere i voti di prelato malgrado sia tossicodipendente. Sono vicende che procedono in solitaria, parallelamente, ciascuna su una direttiva, senza mai incrociarsi, se non con un paio di eccezioni. Il lungometraggio, infatti, resta legato a una serie di racconti senza mai diventare romanzo.
È un film che, nelle intenzioni, vorrebbe essere drammatico, non solo per l’argomento delicato, ma anche per l’ambientazione. Il clima. Siamo a Roma nel periodo post-natalizio e i media annunciano costantemente le temperature cittadine: a gennaio si registrano 35°, 37°, fino a toccare i 40°. Sembra proprio quest’anno! L’obiettivo della camera è sempre sfocato, ma solo perché in realtà filma il calore del terreno che cuoce, ma l’effetto non giova allo scopo: alla lunga stanca. E se il contesto ambientale ricorda «Siccità» di Virzì, la fotografia, in quest’atmosfera da arsura desertica, ha uno spessore tale che schiaccia l’immagine.
Foto: Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino