UN REBUS CHE SUONA COME UN CONCERTO DODECAFONICO
Desidero subito tranquillizzare i miei venticinque lettori, forse ventisette: al termine dello spettacolo un’emozione arriva; difficile capire bene quale sia, ma arriva; non si tratta di forte commozione né di folgorante entusiasmo, eppure il testo di Tommaso Mattei, benché assomigli a un vero e proprio rebus, riesce a toccare le corde emotive degli spettatori, dopo aver scandagliato il rapporto tra padri e figli. E se non tutti sono padri, certamente tutti siamo figli. Altra certezza è che gli attori sono di ottima levatura. Arianna Primavera, nel doppio ruolo di Matto/Cordelia (come Ottavia Piccolo con Strehler, oltre cinquant’anni fa) è la più brava. Non se la prendano i protagonisti, ma interpretare contemporaneamente due parti, essere figlia e parlare con le battute strampalate del Fool e viceversa, dar vita a due personalità nello stesso istante senza alterare né toni né gestualità e riuscire ad equilibrare due diversi caratteri in un unico animo, be’, considerata la giovane età dell’attrice… Chapeau!
Raffinata la prova di Nando Paone che propone un Conte di Gloucester completamente atipico: un raisonner del dolore, dapprima fermo e quasi irriducibile, poi ferito dallo strazio che rinchiude dentro di sé con un grande sforzo intellettivo, tenendo bene a bada la passione, ed infine – una volta cieco – eccolo finalmente cedere alla sensibilità di uomo sconfitto e di padre ritrovato. Anche Valerio Ameli è impegnato in due ruoli, ma si districa bene, in tempi differenti, prima nel perfido Edmund e poi nei panni del fratello Edgar. Roberto Manzi è un dolcissimo Kent. Però che fatica riuscire, senza un’adeguata locandina, a individuare gli attori in scena che non si conoscono.
Ben si riconosce, invece, Alessandro Preziosi: un impetuoso Re Lear nell’animo, vittima di un dolore esuberante, ma Lear di nome e non di fatto. Troppo giovane, e non sempre credibile, troppo aitante e forte, e poco affannato dalle ostilità della vita. Eppure credo che anche questo particolare faccia parte degli elementi del rebus da risolvere. La prima idea, sbagliata e irrazionale, vedendo il persistente fascino giovanile sul viso del protagonista, è che il titolo dell’opera sia una sua precauzione: come se volesse avvertirci che in attesa di potersi calare, davvero e finalmente, nelle vesti del vecchio sovrano shakespeariano, stesse prendendo già le misure da un testo che desidera cavalcare, e non da ora. E siccome l’età ancora non glielo consente, Aspettando Re Lear, quel Re Lear, ha preferito nel frattempo portare in scena l’adattamento di Mattei. Ma questa è soltanto una personale supposizione più irriverente e fantasiosa che realistica, lo ammetto.
Andiamo al sodo. Samuel Beckett, quando pensò al nome del suo personaggio più famoso, quel Godot che riuscì a tenersi sempre alla larga dal teatro, costruì la sua misteriosa identità ampliando appena appena la parola con la quale gli inglesi chiamano Dio: God divenne Godot. Godot, infatti, è il mistero, Godot è la fede, Godot è la speranza, Godot è la rivelazione. Godot è il pensiero fisso da cui dipendono le sorti del mondo. Ma Godot è anche la morte. Sia Lear che Gloucester, dopo le delusioni più concenti che la vita può riservare a un genitore, il tradimento dei figli, attendono la morte come fonte di salvezza, come rivelazione del dolore patito, come speranza di comprensione, ma la morte soprattutto dovrà porre fine alle loro afflizioni di padri sanguinanti. I loro figli, eredi sciagurati (Gonerilla e Regana per Lear ed Edmund per Gloucester), hanno tramato per l’uccisione dei propri genitori, hanno ordito inganni alle loro spalle e gli animi di costoro son lacerati. Ed ecco che i due nobili, un re e un conte, si riducono alla vita di vagabondi, di mendicanti alla ricerca di vane verità, proprio come i due antieroi di Beckett.
Questa mia lettura, forse frutto di un’intuizione imperfetta, non deve far pensare che dalla platea sia ben visibile e codificabile. In scena ci sono per lo più soltanto i personaggi positivi della tragedia (ad eccezione di Edmund, in un paio di apparizioni) e il particolare benevolo tende a confondere le acque, a ingarbugliare animi e situazioni, a render la follia ancor più folle. Probabilmente l’accostamento a Beckett avrebbe meritato un pizzico di ironia in più: se i due personaggi tragici, per esempio, avessero all’improvviso indossato una bombetta nera, allora la soluzione del rebus sarebbe stata più logica; inoltre, la bombetta avrebbe preso, sul capo del re, il posto della corona e la follia sarebbe diventata immediatamente quella tipica del teatro del Nobel irlandese.
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Aspettando Re Lear, di Tommaso Mattei, da William Shakespeare. Con Alessandro Preziosi (Re Lear), Nando Paone (Conte di Gloucester), Arianna Primavera (Cordelia/Fool), Valerio Ameli (Edmund/Edgar), Roberto Manzi (Conte di Kent). Musiche di Giacomo Vezzani. Costumi di Olga Pirazzi, Flavia La Rocca e Tiziano Guardini. Gli elementi scenici sono riproduzioni delle opere di Michelangelo Pistoletto. Regia di Alessandro Preziosi. Al teatro Quirino fino a domenica 17
Foto: Alessandro Preziosi e Arianna Primavera (© ???)