QUATTRO BRAVE ATTRICI PER LA RESISTENZA DEL TEATRO
È davvero strano che uno spettacolo prodotto dal Teatro di Roma, e rappresentato in uno spazio gestito dallo Stabile, non sia annunciato in loco (in biglietteria o al bar di fronte all’ingresso delle sale) né con un manifesto, né con una locandina, e nemmeno con una brochure, come fosse la perfetta presentazione dello «spettacolo inesistente». Resta, purtroppo, sempre una spiacevole sensazione di approssimazione quando un allestimento viene abbandonato all’anonimato. Il supporto offerto dal sito internet dell’ente teatrale non giustifica la mancanza d’informazione per il pubblico: neanche il titolo s’è potuto leggere prima di entrare in sala, figuriamoci i nomi degli attori! Eppure, malgrado il temerario presagio, influenzato certamente dal titolo tendenzioso, lo spettacolo, con l’impalpabile fede tipica degli eroi dell’araldica trilogia calviniana, e con gli eterei fumi che già scivolavano sul suolo del palcoscenico, stava per materializzarsi davanti a una platea gremita di giovanissimi spettatori.
Italo Calvino scrisse il lungo racconto fantastico, Il cavaliere inesistente, nel 1959. Pur se ambientato al tempo di Carlo Magno, il personaggio principe, Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni, guerriero fedele al sovrano, ideato dall’autore come figura composta di sola voce e di armatura vuota all’interno, priva d’identità e di reale sostanza umana, è stato subito individuato dalla critica quale prototipo dell’inconsistenza dell’uomo moderno. Calvino costruisce per il suo eroe impalpabile una vicenda cavalleresca rivolta al tempo passato, ma il suo modo di agire antico dovrebbe spingerci a rivedere i comportamenti e le abitudini che abbiamo adottato nel nostro tempo: la tendenza a obbedire senza mai mettere in discussione l’autorità. Ossia quel temibile male del gregge di cui siamo vittime consapevoli! Immagino che questa sia stata l’esigenza che ha spinto Tommaso Capodanno a proporre un adattamento del romanzo. E suppongo anche che l’obbedienza, cui Aginulfo si inchina, oggi potrebbe essere proiettata nella prostrazione soprattutto da parte dei più giovani che – senza più accorgersene – si inchinano alla dottrina di un cellulare.
Non credo sia un caso, infatti, che il regista ci presenti il suo cavaliere inesistente con sembianze simili a uno stormtrooper di Star Wars, soldati fedeli all’imperatore. È il segnale che la storia medievale deve essere letta (o, nel caso specifico, ascoltata) al presente e al prossimo futuro. Aginulfo, in scena, mostra proporzioni superiori agli altri cavalieri e viene comandato dall’interno dall’abilità di Evelina Rosselli, che con l’ausilio di due semplici bacchette muove le braccia della grande corazza che la protegge alla vista del pubblico e che procede con le sue stesse gambe. L’elmo dell’eroe è posizionato sopra la testa dell’attrice, che tramite un rigido collegamento, oscillando il capo, dà vita al capoccione nascosto dall’austera visiera dietro la quale si cela il nulla. È un marchingegno meccanico, molto ben congeniato, che dona autentica teatralità (ricordiamo i pupi, le marionette) a una scrittura tutt’altro che teatrale. L’adattamento di Matilde D’Accardi resta, infatti, fedele alla forma originale di racconto: i dialoghi sono pochi, a vantaggio di brevi monologhi che danno vita alle stravaganze dei vari personaggi.
Ce ne sono molti e tutti vengono rappresentati da quattro bravissime interpreti: oltre alla Rosselli, che quand’è sciolta dall’armatura è pronta a partecipare al racconto d’insieme, ci sono Maria Chiara Bisceglie, Giulia Sucapane e Francesca Astrei della quale mi piace segnalare il riuscitissimo «dialogo con il piede», un divertissement eseguito con ritmi comici davvero impeccabili. Da tempo vado sostenendo che la qualità media degli attori è cresciuta e non poco, e rappresenta la migliore resistenza del nostro amato teatro. Quando le produzioni si affidano ad attori che non battono per abitudine il marciapiede televisivo (fiction, serie e quant’altro d’ignobile offre il panorama commerciale della tv) la recitazione in palcoscenico è assai godibile: non si capisce per quale motivo molti altri teatri continuino ad aver fiducia nel peggio, solo perché incantati da un «inconsistente» nome popolare.
Francesca, Maria Chiara, Giulia ed Evelina, invece, sono ottime ironiche narratrici, conturbanti monache che raccontano le gesta degli eroi e dei personaggi secondari che qui sono fondamentali per restituire il senso della scrittura di Calvino; sono quindi anche esaltati paladini e impavidi servitori; sono la penna dell’autore che scrive per cercare nel pagliaio della fantasia l’ago della verità; diventano personaggi alti e bassi, seriosi e buffi, docili e severi, ai quali distribuiscono particolari voci affidandosi spesso alle differenti cadenze dialettali (tutte del sud); usano bastoni di legno per fotografare una tenzone e la frusta (quella che serve a far montare le uova) come scettro per ridicolizzare il potere, una corona per il sovrano, un velo per la dama, un cimiero per Bradamante.
Foto: Il cavaliere inesistente (Evelina Rosselli) e Francesca Astrei (© Claudia Pajewski)