11 novembre 2024

«Regine di cartone» di Marina Pizzi

Roma, Teatro Marconi
10 novembre 2024

GINA, TONTA E RUVIDA COME MASCIA, OLGA E IRINA

Durante la lunga pedalata che dal teatro mi ha accompagnato fino a casa, lo sguardo ha incrociato almeno tre situazioni simili a quella appena vista in palcoscenico. Clochard distesi in terra in mezzo ai cartoni: uno completamente nascosto per ripararsi dall’umidità; un altro arruffato e con la barba lunga, sguardo perso nella solitudine, la miseria nelle mani; infine, una donna, scialle strappato che le pendeva sulle spalle, indaffarata nel nulla a recuperare stoffe per passare la notte tra le nevrosi di uno stato d’animo tarato dall’inquietudine. Nessuno discuteva con un compagno. Nessuno citava passi di Medea. Nessuno allargava le braccia nel tentativo di stringere quelle di un altro. Soltanto la donna borbottava da sola sotto il porticato di una piazza del centro.

Queste istantanee di vita reale, rubate a una piacevole serata autunnale, mi hanno convinto – se ce ne fosse stato bisogno – che Marina Pizzi non ha voluto parlarci di emarginati, non ha voluto dipingere un quadro realistico dell’esistenza dei senzatetto, non ha scritto un testo di denuncia su un problema sociale che riguarda una minoranza. No. La situazione effettiva dei clochard, nella capitale e nel mondo, il dramma che tutte le metropoli vivono costantemente da anni e sempre con maggiori difficoltà per gestire le urgenze, in Regine di cartone non c’entra nulla. L’emarginazione delle tre donne che sul palcoscenico vivono in stato di indigenza è soltanto un pretesto per mostrare la volontà, o il desiderio, di fuga di tutti noi (che siamo molto più numerosi dei barboni) dalla nostra quotidianità che ci soffoca. C’è chi fugge dalla famiglia e per farlo crede addirittura d’aver ucciso un figlio, chi fugge dalle amicizie di cui s’è fidato e ora preferisce la solitudine, e chi fugge dal proprio passato – da se stessa – arrivando a rinnegare l’affetto per la propria madre.

Il lavoro della Pizzi è molto più profondo e raffinato di quello di un semplice fotoreporter che mette a fuoco, certamente meglio di altri, quel che è sotto gli occhi di tutti. L’autrice delle tre regine, invece, scava a fondo nell’animo umano, nelle solitudini, nei dolori accumulati, nelle delusioni, nei tradimenti della vita, e lo ripropone con un poetico anacoluto, nel quale (proprio come nella figura retorica) la coesione tra le varie parti delle storie non è rispettata, ma alla fine l’intera parafrasi è chiaramente leggibile nel vano grido di speranza delle tre sorelle cechoviane che anelano a una vita migliore, un’invocazione che, come per Mascia, Olga e Irina, fa parte soltanto dei loro sogni. Anche le regine della Pizzi – non a caso – sono tre: Gina, Tonta e Ruvida; un’ex attrice (Angiola Baggi), una padrona di un bar fallito (Mirella Mazzeranghi) e una prostituta (Maria Cristina Gionta); vivono in un ambiente protetto dalle «preghiere» delle carmelitane, che sono lì accanto. Quindi non è una situazione da strada, di pericolo, di vera miseria! E soprattutto non è un dramma sociale se al finale, di comune accordo, finiscono con lo strappare banconote da 500 euro.

Ora, però, con un pizzico di retorica e anche di malizia, mi chiedo: perché tra le recensioni lette sullo spettacolo, tutte, proprio tutte, sottolineano la drammaticità dell’emarginazione di persone abbandonate e lasciate fuori dalla vita sociale? Una risposta ce l’avrei e riguarda la rappresentazione che invece di valorizzare il lato poetico e di creare tra i personaggi un’adeguata sensibilità, ha evidenziato soltanto l’indigenza e la lunaticità delle protagoniste. Se all’inizio vediamo salire sul palco, dalla platea, una barbona che si trascina un sacco pieno di rifiuti, l’immagine (che è fortissima) diventa documentaristica e il dramma prende una piega sociale e stenta ad elevarsi. Se le attrici quando dialogano guardano quasi sempre il pubblico non riescono a creare tra di loro alcun rapporto emotivo, senza il quale le emozioni da fare arrivare in platea restano a zero; e gli spettatori si commuovono per quel che vedono e non per quel che ascoltano. Invece le parole della Pizzi meritano di essere ascoltate.

E poi questi maledetti microfoni che storpiano i toni, incendiano i sospiri e cancellano i fiati; questi diabolici simulatori che amplificano in maniera meccanica, che ingannano rubando la fonte da cui nasce una voce; ma quale perversa goduria provano certi registi a modificare l’autenticità delle voci degli interpreti. Gli attori hanno studiato anni per far sentire integra la loro voce, per timbrare, per sussurrare, per modulare, per respirare, ma perché si pretende di camuffare loro l’arte del mestiere con un apparecchio che nemmeno funzione bene? Infatti, meno male che, a causa di un fastidioso rumore tecnico, Maria Cristina Gionta ha avuto la fortuna di essere stata «spenta» per qualche minuto e finalmente s’è potuta apprezzare una recitazione originale fasciata da una estemporanea raucedine che ha dato al personaggio un tono veritiero assai clochard. (fn)
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Regine di cartone, di Marina Pizzi; scene Mario Amodio; costumi, Lucia Mariani. Con Angiola Baggi, Mirella Mazzeranghi e Maria Cristina Gionta. Regia di Silvio Giordani. Al teatro Marconi fino al 17 novembre 

Foto: (da sin) Mirella Mazzeranghi, Maria Cristina Gionta e Angiola Baggi (© Tommaso Le Pera)


 

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