QUALCHE COSA DI SICURO IO FARÒ… SOGNERÒ
Il sottotitolo avverte con chiarezza: «Tindaro Granata con le canzoni di Mina». Sembra uno scherzo, quasi un paradosso, finanche si sospetta una presa in giro: non per mancanza di fiducia nei confronti del protagonista che potrebbe avere una gran voce, un talento canoro insospettabile, ma per una ovvia questione di permessi, diritti e concessioni. La curiosità, quindi, s’impenna e si corre alla Sala Umberto per scoprire cosa si nasconde dietro lo strillo del manifesto che suona tra il sibillino e il canzonatorio. Oltretutto «Vorrei una voce» è un verso di un famoso brano cantato dalla Tigre di Cremona. Dunque, com’è possibile che Tindaro Granata possa portare in scena le canzoni di Mina?
Quando lui appare sul palco e intrattiene il pubblico senza svelare nulla, ancor di più prende consistenza l’idea di uno scherzo che si concretizza con l’esecuzione del primo brano. «Io vivrò senza te» è cantato proprio da Mina e riproposto in un video dei primi anni Settanta (se non erro registrato alla Bussola di Viareggio), mentre Tindaro, poverino, simula un misero playback, stretto in un angolo, schiacciato dall’immagine di lei che giganteggia sullo schermo, e sommerso dalla voce inconfondibile della numero uno. Qualcuno in sala già canta a squarcia gola (stonando in maniera indescrivibile), mentre lui, quasi in quinta, è costretto a muovere solo le labbra e a sbracciarsi muto. Non farà mica tutto lo spettacolo così? Sospetti più maliziosi si condensano in platea.
Ma, naturalmente, non è come sembra. Tindaro simpaticamente si è preso gioco delle attenzioni del pubblico per introdurre con leggerezza una storia di tutt’altro spessore, dove le canzoni di Mina e il teatro sono soltanto il trampolino per spiccare il salto per imparare a sognare. Meglio: per aiutare qualcuno a ricominciare a sognare. «Vorrei una voce» è il grido silenzioso delle donne rinchiuse all’interno della Casa circondariale di Messina. Una prigione che le detiene da anni. Un carcere che annulla la libertà a donne che sono talvolta soltanto figlie, più spesso mogli, quasi sempre madri. La storia che Tindaro racconta è vera, reale, autentica: è la sua esperienza nella sezione femminile di alta sicurezza. Cioè, quattro sorveglianti per ogni detenuta. Lì, Tindaro, siciliano di Tindari, ha incontrato la riservatezza di Assunta, la verginità di Sonia (madre di tre figli), la confusione di Rita, l’aggressività di Jessica e tante altre ragazze che, per difendersi dalla realtà in cui vivono, hanno smesso di sognare. Forse per soffrire di meno, o soltanto per ubbidire alle imposizioni delle sbarre, dei cancelli, dei controlli.
In collaborazione con Daniela Ursino, direttore artistico del teatro del penitenziario, e grazie al progetto «Il teatro per sognare», nasce l’idea di realizzare insieme con Assunta, Sonia e le altre l’ultimo concerto pubblico di Mina, quello del 23 agosto 1978, sempre in Versilia. Le canzoni sono famose e Tindaro è convinto che cantando «come canta Mina» possa rinascere nelle detenute, ormai spente, il desiderio, l’orgoglio, il coraggio di ricominciare a sognare. Attraverso la mimica e le differenti parlate (soprattutto dialettali), Assunta, Sonia, Vanessa, Rita e Jessica rivivono in palcoscenico grazie alle trasformazioni di Tindaro, a cui basta il veloce cambio di un leggero indumento per interpretare l’una o l’altra che si confesserà tra ricordi e dolori e ossessioni. Molti drammi, certo, ma anche molte piacevoli risate.
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Vorrei una voce, scritto, diretto e interpretato da Tindaro Granata. Alla Sala Umberto, ancora stasera e domani (h. 20.30)
Foto: Tindaro Granata sovrastato dall’immagine di Mina (© ???)