LA NEVROTICA LOCANDA DEL CACCIATORE SPAVENTA ANCHE I BEATLES
La notizia felice è che, ancor prima di debuttare, Trappola per topi già ha fatto registrare al botteghino del Quirino il tutto esaurito (o quasi) fino all’ultima replica (1° dicembre). Agatha Christie è un nome che in teatro certamente gode di un ampio richiamo di pubblico; il giallo poliziesco, da qualche anno, suscita anche in palcoscenico – per intrigo e leggerezza – notevole curiosità; ma né la fama dell’autrice, né l’attrazione del genere investigativo attirano più del volto televisivo. La televisione costruisce il divo, il bello, il magnifico, l’imperturbabile, l’indiscusso prodigio: a prescindere! Obbiettivamente riempire le platee è davvero diventato un prodigio. Ettore Bassi ci è riuscito, non si sa se grazie al Maresciallo Rocca, o a Un posto al sole, o al poliziotto Rex. Certamente non per il Sergente Trotter del palcoscenico, di cui l’eco è ancora soffusa.
La seconda notizia davvero inaspettata, positiva anch’essa, è che in scena si contano ben otto attori che – udite udite – recitano senza microfono. La terza notizia, meno positiva, è che, in verità, è difficile, secondo i canoni accademici, parlare di recita: nel senso che l’impresa collettiva a cui abbiamo assistito non è accuratamente stata concordata come avrebbe dovuto. Sì, ciascuno interpreta un ruolo, ma ognuno lo colora a modo suo, cosicché ne vien fuori una tavolozza impazzita. La gestualità è nevrotica ed esagerata, le reazioni sono inutilmente spropositate, i toni di voce pirotecnici, la finzione trascendentale. Quando il regista punta sulle caratterizzazioni dovrebbe tenere molto a freno le esuberanze degli attori, affinché non diventino singole stravaganze, perché caratterizzare vuol dire portare all’estremo il temperamento di un personaggio, esasperarne il carattere fino a tirargli fuori il ridicolo. E se gli estremi non sono convogliati in un’unica direzione diventa una babele, e ciascuna caratterizzazione offusca l’altra. Con la conseguenza che, alla fine, la disordinata e smarrita profusione di caratteri si deve arrendere al pastrocchio.
All’aprirsi della tela si resta sgomenti per la sontuosità della scena di Luigi Ferrigno che fa, di una baita di montagna, il paradiso delle corna. Di cervo naturalmente: se ne contano 13 coppie. Una grande vetrata sul fondo s’affaccia su un bosco innevato con tronchi di faggio a vista. È la Locanda del cacciatore, dove Mollie e suo marito Giles si apprestano a ospitare cinque clienti, alcuni dei quali sono coinvolti in uno stesso caso investigativo ormai quasi dimenticato, che però un inopinato omicidio in città riporta alla ribalta delle cronache. Cosicché all’improvviso ecco arrivare, sci in spalla, dalla foresta imbiancata, il sergente Trotter che indaga in maniera alquanto improbabile, badando più alla fascinazione dell’interprete che a quella del personaggio, come spesso accade per i «televisivi». Tuttavia, anche se la commedia della fuoriclasse del crimine è fin troppo famosa e il finale risaputo, in un giallo è sempre meglio non svelar troppo per non far crollare la suspense.
Foto: Claudia Campagnola e Stefano Annoni (© ???)