L’UNICO ALBERGO DOVE LUCIFERO VOLA IN PARADISO
Un gioco di fine stagione chiude la programmazione del Quirino
Oltre a muovere il sole e l’altre stelle, la materia dantesca, per una sera e fino al 19 maggio, la gran folla de li spiriti mali, di qua, di là, di giù, di su li mena per i meandri del Quirino, e per i luoghi più misteriosi e angusti. Hotel Dante, infatti, non è propriamente uno spettacolo teatrale con il pubblico seduto in platea e il sipario aperto, ma è piuttosto un’occasione per far correre gli spettatori da una parte all’altra dell’edificio, dai camerini fino all’ultimo ordine di balconata, alla scoperta di inciuci e pettegolezzi dei personaggi che appaiono nella Divina Commedia. Sul manifesto è dichiarato come format e il suo ideatore è quel robusto ragazzo barbuto che risponde al nome di Roberto D’Alessandro. Il quale, all’inizio della performance, mentre una corifea declamava a memoria i versi del VI canto dell’Inferno, più che Cerbero, nella fisionomia, poteva esser considerato Ciacco, che era lì per la dannosa colpa della gola.
L’idea dell’albergo nasce evidentemente per indicare un luogo appartato dove l’anima di turno tutta si confessa, ma non al conoscitor de le peccata, bensì a noi peccatori comuni e moderni che abbiamo una visione differente delle disavventure così come furono vissute dagli abitanti del Medioevo o giù di lì. E a noi è affidato il compito di condannare o assolvere lo spirito che ancor vive di passione mai sopita. Un impegno arduo e deontologicamente scorretto, ché a la seconda morte ciascun grida, ma senza che il suon de l’angelica tromba abbia concesso la riapertura dell’assise. Il giudizio, all’interno dell’Hotel Dante, è in realtà una possibilità – un’astuzia dell’ideatore – di insinuare nella coscienza delle anime della Commedia il dubbio che il Sommo poeta abbia commesso un errore sul conto di qualcuno. Soltanto così si potrebbe concepire un epilogo in cui Lucifero raggiunge il paradiso e Cacciaguida scivola all’inferno. Com’è accaduto contro ogni previsione! Siamo un pubblico scorretto: giudici corrotti dai mali e dalla noia del nostro tempo. Su questo equivoco si fonda la fortuna del format.
Come s’è capito, si tratta di un gioco, un puro divertissement che chiude festosamente la stagione del Quirino, ma concepito con ingegno, e si sviluppa su due livelli: uno più letterario, l’altro prettamente ludico. D’Alessandro ha affidato a un gruppo cospicuo di autori il compito di scrivere una quarantina di brevi monologhi costruiti sulle indicazioni che Dante fornisce per descrivere i personaggi delle tre cantiche, affidandoli poi a un folto numero di interpreti. Per cui, ciascun personaggio racconterà di sé, aggiungendovi inediti particolari storici che il poeta potrebbe aver taciuto, senza mai rivelare la propria identità né dire dove l’autore lo abbia relegato. Sta alla capacità dello spettatore, quindi, indovinare chi ha di fronte e dove rispedirlo: se all’inferno, al purgatorio o in paradiso. Non avendo noi la coda di Minosse, il buon D’Alessandro ci ha rifornito di quattro chiavi onde poter giudicare, in prima battuta, altrettanti spiriti.
Inizialmente sono stato traghettato nel corridoio dei camerini, dove ho incontrato, in separata sede, quattro anime di bianco vestite, quattro monologhi in prosa, ognuno in una camera, a porte chiuse, davanti a un uditorio di massimo cinque persone. Gli attori sono stati tutti convincenti nel perorare la loro causa per conquistare un posto in paradiso, tranne una che avrebbe voluto raggiungere il figlio all’inferno ma, imperatrice troppo buona e commovente, ha fallito l’intento: nessuno ha avuto la scelleratezza di respingerla al doloroso ospizio.
Terminate le chiavi, ero ben disposto a recuperarne altre. Per averle sarebbe stato possibile indicare, al personale addetto alla distribuzione, il numero identificativo delle stanze finora visitate e rivelare, come in un indovinello, il nome del personaggio che l’occupava. Ma se fin qui l’esperimento ludico si era palesato semplice e senza pecche, oltre che ben eseguito, ora i nodi venivano al pettine. Per avere altre chiavi avrei dovuto far una fila di sì lunga tratta di gente, ch’io non averei creduto che tanta ce ne fosse; e quindi attendere che tutti si rifornissero di nuove chiavi rispondendo alle domande etc. etc. Un’attesa tanto lunga che, a quel punto, la mia curiosità non ha sopportato. Sapere che lassù, nel cielo più alto dell’empireo, proprio dov’è il loggione, avrei potuto incontrare una conturbante Beatrice, bruna e dalla voce calda, o una Sapìa intrigante e velenosa dagli occhi blu-marè, mi ha fatto ricordare di essere ancora un ottimo peccatore, disobbediente e sovversivo ai regolamenti. Ho rinunciato volentieri alle chiavi per non perdermi tante altre accattivanti confessioni. Conoscere il punto di vista delle anime e apprezzarne il personale tentativo di volersi sganciare dalla stretta imbragatura dell’eterna terzina dantesca è stato un apprezzabile e avvincente gioco della verità. Peccato, però, che io non possa ritrar di tutti a pieno!
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Hotel Dante, un format di Roberto D’Alessandro. Teatro Quirino, fino al 19 maggio