08 maggio 2024

«L’arte della commedia» di Eduardo De Filippo

Alex Cendron e Fausto Russo Alesi

Roma, Teatro Argentina
7 maggio 2024

QUANTA SOVRABBONDANZA PER COPRIRE EDUARDO!

«Egregi Signori … Vi espongo in maniera semplice le mie osservazioni relative ai più urgenti problemi da risolvere onde poter affrontare con serietà l’organizzazione dell’Ente Stabile Teatrale Città di Napoli». Era il 16 ottobre del 1963 quando Eduardo scrisse una relazione alla Commissione consultiva che lo incaricò di lavorare al progetto che avrebbe dovuto costituire il Teatro Stabile napoletano, un ente che fino a quel momento esisteva ufficialmente già da qualche tempo, ma soltanto in teoria: cose molto napoletane! Eduardo, da quel che si legge, era assai scettico sulla riuscita dell’operazione, soprattutto perché le autorità a cui all’epoca si rivolgeva erano concretamente interessate ad altre faccende molto più remunerative: per intenderci, il film di Rosi «Mani sulla città» è dello stesso anno.

Tuttavia, le idee e l’impegno che Eduardo profuse per tentare di costruire basi più concrete a uno Stabile cittadino, non potendo germogliare negli uffici del Comune di Palazzo San Giacomo, maturarono direttamente in palcoscenico, grazie alla sua penna che diede vita a L’arte della commedia, che è innanzitutto un contributo teorico alla ristrutturazione dell’organizzazione teatrale italiana. Il dibattito in scena, infatti, nasce come disinvolta disquisizione tra un uomo di teatro, Oreste Campese, e l’autorità prefettizia di un capoluogo di provincia. Si parla di teatro in crisi e di relativo «clima di assoluta confusione» che «fatta passare per crisi teatrale diventa una cartella di rendita nelle mani dei confusionari». Poi si analizza l’attore, la cui categoria è poco riconosciuta dalla società, della mancanza di un Albo professionale e dell’Accademia d’Arte Drammatica «che ha il compito di accrescere anno per anno le schiere degli sbandati». Questi temi Eduardo li affrontava nel 1964. Oggi sull’organizzazione degli stabili si sono certamente fatti dei passi in avanti anche importanti, perfino a Napoli; sul ruolo sociale della figura attoriale, un po’ meno; sull’Albo si può stendere un velo pietoso; mentre il numero degli sbandati è aumentato vertiginosamente a causa delle tante scuole di recitazione che nel frattempo son fiorite. Insomma, testo ancora attuale e soprattutto vivo di teatralità, per quel che accade in palcoscenico, dove il gioco pirandelliano tra realtà e finzione viene voltato a tentativo di «stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese oppure no».

A questo punto subentra l’operato di Fausto Russo Alesi, che torna a confrontarsi, dopo qualche annata, con il grande Eduardo di cui già propose «Natale in casa Cupiello». Mi rammento della famosa diatriba, tra Cechov e Stanislavskij, che s’accese quando l’autore russo prese le distanze, rifiutando ogni responsabilità per l’allestimento cupo e malinconico del «Giardino dei ciliegi». È risaputo che Cechov non fosse soddisfatto della piega drammatica intrapresa da Stanislavskij, e obbiettò che il testo che aveva composto recava insistita l’indicazione di commedia, perché egli la sentiva ricca di spunti comici o umoristici che il regista aveva tradito. Qui la parola chiave è addirittura stampata nel titolo – L’arte della commedia – e Russo Alesi, a suo modo, ha anche cercato di rispettarla, nel senso che non ha offerto un allestimento completamente cupo e malinconico, ma ha ugualmente tradito le intenzioni della commedia che conteneva, lo ripeto, una disinvolta disquisizione tra un uomo di teatro e l’autorità prefettizia, dalla quale ne scaturisce un gioco a sfondo metateatrale. Un gioco, però!

Per carità, non mi si fraintenda, l’intenzione dell’intervento registico di Russo Alesi è più che lecito: è compito proprio del regista smuovere un testo dalla sua fissità letteraria, guai se non lo facesse, ma… se ciò apportasse confortevole giovamento, se regalasse gradevole primizia, se elargisse gustoso appagamento, allora, sì, che sarebbe rispettata in pieno l’esigenza della commedia. In un periodo in cui si cerca di alleggerire i testi teatrali, di renderli svelti e veloci per far andare a letto il pubblico non troppo tardi; in un periodo in cui i ristoranti dopo teatro sono diventati il principale assillo degli attori che ancora godono della tournée e dei nostalgici viziosi, come il sottoscritto, Russo Alesi si dilunga in eccessi, lentezze e ripetizioni, ossia il contrario di quel che la commedia esige.

Si comincia, in un’atmosfera assai cupa, ma con il sonoro scoppiettante delle voci di Eduardo e di Gennarino Palumbo che ripetono la famosa gag tratta da «Uomo e galantuomo» (‘Nzerra chella porta), solo perché si chiude con il capocomico, di quella sconquassata banda di guitti, che ordina «Signori, comincia la prova!» Dopodiché un servo di scena declama con perfetta cadenza ronconiana – parola, pausa, parola, pausa – le didascalie di apertura del testo. Seguono un paio di soliloqui sul freddo dell’ambiente e sulle misure del cortile dove Campese attende: è una sorta di prologo. Poi c’è una lunga costruzione scenografica che forma lo studio della prefettura dove si svolge l’intera vicenda. Finalmente si comincia, ma con estrema cautela: e quante pause, e quante camminate, e quanti silenzi, e quanti accorgimenti, e quante «caccole», e soprattutto quanti teatri e quanti generi: c’è Ionesco, c’è Brecht, c’è Ronconi e poi il valzer di De André, la canzone di Milva, quella di Aznavour, al finale il balletto in stile mimo che ricorda un po’ Marceau e un po’ Kemp (ma è un po’ più estenuante e lungo!). Tutte immagini già viste e riviste che hanno anche un senso, certamente, ma non così, accatastate una sull’altra come ingombri riposti in una cantina ripiena come a voler seppellire l’impronta di Eduardo. È una sovrabbondanza di elementi che carica l’arte della commedia (stavolta non è il titolo dell’opera, ma il suo significato letterario) di un peso esagerato.

Il disastro ferroviario che si racconta nell’opera diventa, paradossalmente, nella regia di Russo Alesi, l’emblema della gravità con cui si svolgono i drammi dei personaggi che, nel secondo atto, si avvicendano nello studio del prefetto. La conferma giunge inaspettata quando arriva Frate Salvati, interpretato dal convincente Gennaro De Sia (che pure molto somiglia all’Alesi), il quale, ricalcando un po’ l’originale di Mario Scaccia, soprattutto nei toni e nei fiati, acciuffa come per miracolo il giusto clima della commedia che all’improvviso sembra ritrovare il suo respiro naturale. Così come, all’inverso, la scena della maestra (cui Imma Villa dona un’ottima interpretazione), che dovrebbe apportare un momento drammatico, invece, non riesce a far breccia nel grigiore generale riproposto sin dall’inizio.

L’astrattismo avanguardistico, con cui Russo Alesi sembra aver partorito l’idea dell’allestimento, Eduardo lo concepì in un curioso autoritratto degli ultimi anni, ma mai lo pensò per una commedia. Il linguaggio teatrale di Eduardo affonda le radici nella tradizione partenopea di Petito e di Scarpetta e non può essere trasposto visivamente in un contesto immaginario mitteleuropeo come è stato fatto con Pirandello o con Viviani. Non è un caso che risulti confusa l’impostazione della regia di Russo Alesi: sono sbagliati i toni troppo gridati degli attori, è sbagliato il nero dei costumi che riveste – ricordiamolo – una compagnia di guitti, di scavalca-montagne, di artisti che viaggiano tirandosi appresso un capannone. Lo dice Campese: «Il mio gruppo lavora per un pubblico minuto: braccianti, contadini, serve, bottegai». Soltanto il prete mi ha messo il sospetto che davvero potesse esibirsi di fronte a un simile parterre. Gli altri no, facevano tutti parte di una compagnia straniera, condotta da un novello nibelungo, che tuttavia, da attore, non manca dei suoi momenti brillanti. (fn)
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L’arte della commedia di Eduardo De Filippo, con Fausto Russo Alesi (Oreste Campese), David Meden (Veronesi, il piantone), Sem Bonventre (Palmira, padrona dell’osteria), Alex Cendron (il prefetto De Caro), Paolo Zuccari (il segretario Franci), Filippo Luna (Quinto Bassetti, il medico), Gennaro De Sia (Padre Salvati), Imma Villa (Lucia Petrella, la maestra), Demian Troiano Hackman (Gerolamo Pica, il farmacista), Davide Falbo (l’uomo che legge le didascalie, e la voce del carabiniere). Scene, Marco Rossi. Costumi, Gianluca Sbicca. Musiche, Giovanni Vitaletti. Luci, Max Mugnai. Regia, Fausto Russo Alesi. Produzione: Teatro di Napoli; Fondazione Teatro della Toscana; Teatro di Roma. Al Teatro Argentina, fino al 19 maggio

Foto: (© Filippo Manzini)


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