LA MISS WERTHAN DELLA VUKOTIC AMMORBIDISCE LE INTOLLERANZE
La più dolce sfumatura che oggi si può riscontrare in A spasso con Daisy, dopo 37 anni dal suo debutto teatrale, è il tema con cui l’autore ha affrontato il razzismo: un argomento che negli Stati Uniti d’America, ancora oggi, è assai dibattuto a causa di episodi che tuttora si ripetono ai danni di persone dalla pelle nera. Occorre, però, fare un riepilogo delle date per comprendere meglio la delicatezza con la quale lo scrittore, nato ad Atlanta nel 1936, è riuscito a far breccia nel muro della discriminazione razziale. La vicenda si svolge in Georgia nel 1948. Sono trascorsi appena nove anni, da quando, in occasione della prima proiezione di Via col vento, nel territorio dove il romanzo è ambientato, Hattie McDaniel, storica Mamie, venne ammessa in sala eccezionalmente. La Georgia è stata una delle regioni in cui il razzismo si è espresso nella maniera più feroce: il Ku Klux Klan trovò terreno fertile in quelle zone e la famigerata setta fu debellata soltanto nel 1944.
Uhry, l’autore, sceglie come protagonista della sua storia, leggera e divertente, una signora di origine ebraica, che nel 1948 ha 72 anni, quindi è nata nel 1876, quando Bell brevettò il telefono inventato da Meucci, e la Coca-Cola (di Atlanta, capitale della Georgia) ancora non era stata creata, ma il KKK già perseguitava la gente di colore, diffondendo terrore tra le cosiddette minoranze, che invece erano la maggioranza. Daisy Werthan, la signora in questione, nella sua vita di donna ebrea e americana, ha vissuto indirettamente l’olocausto nazista, ma direttamente il riflesso che quel genocidio generò in Georgia ai danni dei neri. Nel 1948 la Georgia è appena uscita dal periodo più buio e feroce che la sua storia ricordi, e Alfred Urhy all’epoca aveva soltanto 11 anni. Un bambino che dovrebbe essere, se non terrorizzato, almeno traumatizzato, per aver vissuto i primi anni della sua vita in un clima dove i nigger da una parte e giudei dall’altra venivano perseguitati e sterminati. Invece, all’età di 50 anni, scrive un delizioso testo teatrale – che poi diventerà uno dei film più applauditi di sempre – che si basa proprio sulla diffidenza che la signora Daisy nutre nei confronti del suo chauffeur personale dalla pelle scura. Ma il tessuto del dramma si sviluppa con ironia, leggerezza e delicatezza.
I riferimenti dichiarati al razzismo, in effetti, sono soltanto un paio e anche abbastanza soffusi, ma qui, quel che conta, è l’atteggiamento della protagonista che dovrebbe essere, almeno all’inizio, molto ostile nei confronti dell’idea di avere un subalterno di colore che giri per casa e metta le mani nelle sue cose. Milena Vukotic, nel ruolo principale, per suo naturale stile di recitazione, tende ad ammorbidire quest’intolleranza, ripete perfettamente le battute più perfide, ma ne elude l’acrimonia, preferendo quei toni aggraziati e talvolta caricaturali della vecchina, che le permettono di catturare immediatamente la simpatia del pubblico al quale strappa numerosi applausi a scena aperta. A mio personale avviso, invece, Miss Daisy Werthan dovrebbe risultare inizialmente antipatica per poter poi, durante i venticinque anni (la commedia si chiude nel 1973) di «convivenza» con l’autista Hoke, diventare, nei suoi confronti, prima comprensibile, poi dolce ed infine confidente ed amica. Mentre, nei riguardi del figlio conserva, dall’inizio alla fine, l’attitudine della madre «pedante e insopportabile». Di gran classe, quando apostrofa la nuora dandole della «My fair lady», ossia una poco di buono se non peggio.
Il lungo percorso temporale, durante il quale si sviluppa la vicenda – che i programmi musicali della radio sintetizzano annunciando prima Bing Crosby e in ultimo Ray Charles, segno che i tempi son cambiati – e il progressivo mutamento degli umori di Miss Daisy sono perseguiti con precisione sia da Salvatore Marino (paziente, simpatico e brillante Mr. Colburn) che da Maximilian Nisi, inaspettato trasformista nel ruolo di Boolie, il figlio dai capelli bianchi e alla fine anche dal ventre esagerato. Nei loro duetti - entrambi molto bravi - si avverte una freschezza comica che talvolta tende ad affrancarli dal rigore dei personaggi, ma sempre nel rispetto del gioco teatrale. Il trascinatore, lo si nota bene, è Marino, il quale tenta anche di corrompere l’irreprensibile Vukotic che, nell’arco dell’intera rappresentazione, risulta essere stata più severa come madre che nei confronti dell’autista.
La regia di Guglielmo Ferro è la più coerente delle quattro presentate questa stagione. Soltanto la scena risente di un marchio teatrale un po’ antiquato: la struttura pesante della stanza e i colori tenui e immutabili, difficili perfino da alterare con le luci, risentono più della monotonia degli anni Settanta che delle parapettate scenografiche del ’50. Un po’ di leggerezza e di moderna inventiva avrebbe aiutato tutti, compresi i macchinisti, impegnati in cambi di scena a vista come si faceva tanti anni fa a sipario chiuso.
Concludo con un appunto sulla sedia. In scena, ad apertura di sipario, si vede, in una stanza arredata con logica inappuntabile, sopra una pedana, una panca frontale al pubblico con una sedia posta davanti, sempre frontale al pubblico. Ci si chiede: chi mai avrà messo una sedia in quella posizione dinanzi a un divanetto che non stona con il resto dell’arredamento? Si tratta certamente di un errore. E infatti pare che lo sia per davvero, quando Hoke entra in scena, l’afferra e la porta accanto a una scrivania. Si capisce finalmente che quella sedia, prima, era lì, dimenticata, in una posizione dove non doveva essere. Ma poi, confondendo ancor di più le immagini, uscendo dal personaggio, sul successivo cambiamento di luci, Salvatore Marino la riporta esattamente dov’era, sopra la pedana. Soltanto dopo un po’, appena compare un volante, si capisce che quella sedia è il seggiolino («smontabile» a questo punto) dove si accomoda lo chauffeur quando guida l’automobile per portare a spasso Miss Daisy, la quale siede sul divanetto retrostante. La pedana scivola lentamente in avanti e le strade di Atlanta si affollano di macchine che scorrono in un filmato in bianco e nero, alla maniera degli antichi set cinematografici.
Foto: da sin, Salvatore Marino, Maximilian Nisi e Milena Vukotic (© Luigi Cerati)