UN TITANICO LEAR PER RE LAVIA
Per essere un grande attore non è necessario essere Matto, ma un briciolo di follia certamente aiuta. Come già accadde per l’Amleto, Gabriele Lavia, ieri sera, grazie al guizzo folle del tenace istrione, ha tenuto in pugno la platea del teatro Argentina, per quasi cinque ore, con una titanica lettura del Re Lear di Shakespeare, testo con il quale l’attore e regista aprirà la prossima stagione del Teatro di Roma. Lear o l’impietosa esperienza del dolore, come tiene a precisare, è «la presa di coscienza dell’uomo con la sua vecchiaia e la sua morte», le più profonde amarezze della vita: ed è quanto deve venir fuori – avverte Lavia – da un testo teatrale immenso e importante come questo. Il preambolo si conclude con un pensiero rivolto ai suoi esordi: «Dedico l’allestimento del Re Lear a Giorgio Strehler, il più grande regista di tutti i tempi».
Era il 1972, quando Strehler portò in scena al Piccolo di Milano la tragedia shakespeariana con Tino Carraro protagonista e, accanto a lui, Renato De Carmine, Carlo Cataneo, Ottavia Piccolo, Ivana Monti, Giuseppe Pambieri e Gabriele Lavia nel ruolo di Edgar. C’è un profondo sentimento di riconoscenza e gratitudine nei confronti del grande maestro, colui che ha spiegato a tutti cos’è il teatro. Lavia ripete la lezione appresa: «Il teatro è un sistema di etica del mondo. Il mondo ha capito chi era soltanto quando si è visto rappresentato. Certo, ci sta anche chi non lo capisce, ma mio dovere è far capire. Altrimenti, se non faccio capire, vuol dire che ho fatto male il mio mestiere».
Quindi ce la mette tutta. Si carica di quella follia necessaria per cominciare l’impresa. Ci mostra lo spessore del copione e, sarcastico, precisa: «Questo però è quello già tagliato, altrimenti domattina staremmo ancora qui». E il racconto dei cinque atti inizia con Tino Carraro, così come lui si presentava al pubblico, così come lui si muoveva e apriva le braccia. Poi descrive la nuova scena, quella che sarà: «Ci sarà una tempesta di vento, un proiettore verticale al centro illuminerà Lear, dietro un controluce al minimo, lì un pianoforte…», e Shakespeare prende la parola. Il dolore si manifesta quasi subito, poi è la volta del Matto seguito dall’eco del maestro: «Full è la persistenza dell’amore di Cordelia», motivo per cui l’attrice interpreterà il doppio ruolo. Lavia lo spiegherà più tardi anche dal punto di vista storico. Gli attori delle compagnie elisabettiane non erano mai più di undici e dovevano misurarsi con più personaggi. Quindi, a un certo punto, scomparirà il Matto e riapparirà Cordelia, giusto il tempo di cambiarsi d’abito.
A proposito, sobbalza Lavia, c’è un problema nel testo, causato probabilmente da una delle tante trascrizioni: ed è la possibilità che siano saltate un paio scene che spieghino meglio la fine di Matto. Si rivolge al pubblico: «Una spiegazione me la son data, ma se qualcuno ne ha una migliore, si faccia avanti». Dalla platea schizza una chiara imprecazione che interrompe la lettura, «è la terza volta che squilla il cellulare», dice uno spettatore giustamente infastidito. Lavia trova parole giuste per fargli sentire la sua vicinanza: «È brutto far squillare qui il cellulare. Il teatro, diceva Strehler, è un affare collettivo. Il cellulare – aggiunge il nostro protagonista – è un affare esclusivamente personale, come fare una puzza silenziosa». Ma l’applauso copre l’ennesimo squillo: una signora dalle retrovie risponde lasciando la platea.
Sul leggio c’è un copione che detiene il potere sul palcoscenico, come un muto direttore d’orchestra che aspetta il momento per comandare l’avvio. La lezione riprende come se nulla fosse accaduto. L’attore ritrova la concentrazione. Modifica la voce, simulandone tante, quasi una per ogni ruolo: Kent balbetta, Edmond è fiero della sua protervia. Ci fa sentire la tempesta della mente, dell’anima e del fisico del vecchio re affranto dal dolore. Ci fa vedere la piccola sedia del suggeritore che diventerà un trono. Canta le rime composte per l’occasione. Descrive il susseguirsi delle scenografie. Ci mostra lo scivolo in proscenio che unirà la platea con il palco. Suggerisce i cambiamenti di luci.
S’interrompe per mostrare i disegni sul copione, a colori. Spiega cos’è l’elemento simbolico. Mima i gesti dei personaggi. C’è anche il tempo per un dubbio sull’uovo che chissà se si aprirà in due: «Tutto è sempre preparato prima, ma questa dell’uovo sarà la cosa più difficile dello spettacolo. Speriamo mi facciano un uovo ben fatto». Poi torna ad essere Edgar, quell’Edgar, nudo e storto, misero e claudicante. Legge le note di regia appuntate a margine. Enuncia le teorie storiche del teatro. Rifà il verso triestino del maestro. Rammenta agli smemorati i caratteri storici del Teatro Elisabettiano. Recita anche le didascalie, le approfondisce, ipotizza le varianti. Racconta la storia su cui il poeta ha costruito il testo. Paragona il passato con il presente. Rifiata con una battuta di spirito, ma non sente mai la necessità di un bicchiere d’acqua (mentre in platea molti tracannano dalla bottiglia, e qualche maleducato mangia addirittura). Fa il rimbombo del tuono, ci fa vedere il lampo, attira il vento con le mani. E nelle pause immagina in silenzio per lasciarci immaginare.
Foto: Gabriele Lavia (© ???)