Un momento della protesta al teatro Argentina |
ORSINI CON BRANCIAROLI, LAVIA E SERVILLO SARANNO LE STAR
Onestà mi impone di ammettere di essermi divertito molto di più durante le cinque ore in cui Lavia, l’altra sera, ha letto il Re Lear, che nelle due ore di presentazione del cartellone della prossima stagione. E il motivo non è banale come può sembrare: un palcoscenico diventa culla di vita se a rivelarne le sue magie e le sue ricchezze è un commediante pronto a ingannarci con la finzione scenica di una storia nascosta dietro il sipario. Quando, invece, la ribalta si riempie di parole ferme, di gente seduta, d’intonazioni formali, di numeri declamati, di ossequi e di ridondanze politiche, la noia in platea prende il sopravvento. E siccome anche l’elenco degli spettacoli è abbastanza noioso, lascio con piacere questa incombenza al sito dello Stabile che provvederà, con più precisione di me, a informare la cittadinanza di quanto avverrà la prossima stagione nei tre spazi del Teatro di Roma.
Anticipo che gli spettacoli saranno 48, divisi tra Argentina, India e Torlonia; in attesa del Valle, la cui riapertura slitterà a giugno dell’anno prossimo: quindi, se tutto va bene, se ne riparlerà per la stagione 2025/26. Al nuovo direttore Luca De Fusco, che ha preso le redini dello stabile soltanto tre mesi fa, il compito di annunciare gli appuntamenti da non perdere con Gabriele Lavia (Re Lear), Toni Servillo, quindi Umberto Orsini e Franco Branciaroli diretti da Massimo Popolizio (I ragazzi irresistibili), lo stesso De Fusco proporrà Guerra e pace; poi ci saranno i Sei personaggi con la regia di Binasco; ancora Pinter, Mamet, Bergman. E tanti altri tra cui, all’India, un Riccardo III, un interessante adattamento da Italo Calvino, un trittico su Annibale Ruccello, un Cechov rivisitato (Tre sorelle), La leggenda del santo bevitore allestito da Andrée Ruth Shammah e La banalità dell’amore con Anita Bartolucci e la regia di Piero Maccarinelli.
Non voglia sembrare scortese l’incipit dell’articolo, ma quando l’assessore Miguel Gotor ha detto che «il palcoscenico è anche un luogo adatto per conferenze» mi si è raggelato il sangue nelle vene. Continuo a pensare che la visione politica e amministrativa di un luogo dove si giuoca a far sul serio sia molto diversa dalle aspettative che il pubblico nutre nelle proposte del teatro della propria città. Ben vengano, quindi, le rassegne, i festival, le attività collaterali, gli approfondimenti d’archivio, le formazioni per attori e attrici, i laboratori teatrali, le visite guidate, i progetti in collaborazione con l’Ordine dei medici e degli odontoiatri per coinvolgere i più piccoli, le promozioni per avvicinare il teatro a chi ne è a digiuno (prezzo simbolico 3 euro per tre spettacoli), le aggregazioni per combattere gli effetti dell’isolamento sociale (Silver seats), l’attività per i principianti, le agevolazioni scolastiche. Ben venga tutto quel che può avvicinare il teatro all’individuo della polis: catturare ogni giorno un abbonato o uno spettatore è sempre una gioia, è sempre una conquista, ma le conferenze no, le conferenze allontanano chiunque e fanno sembrare il teatro quel che non è, e che non deve essere.
Questo pare averlo ben compreso anche Francesco Siciliano, il quale tuttavia ha aperto l’incontro con un discorso troppo lungo, e rivolto per lo più a un recente passato già sconquassato dalle polemiche sull’elezione del direttore. Pace fatta capo ha, diremmo parafrasando il poeta! Invece, tornare a discuterne, anche se con termini amichevoli, non ha fatto germogliare i fiori desiderati. Piuttosto sono emersi soffusi mormorii, occhiate dissidenti e un’immancabile protesta che probabilmente ci sarebbe stata ugualmente.
Andiamo al fatto. Quando la collega del maggior Corriere ha giustamente chiesto una data più precisa per la riapertura del Valle (attività sospesa dal maggio del 2011), che ancora non era stata annunciata, Gotor ha intrapreso un discorso che aveva del surreale e ci ha fatto ben comprendere qual è la triste realtà che rallenta l’ingranaggio burocratico per la riapertura di un teatro. L’opera omnia di Shakespeare, di Pirandello, di Goldoni e di Molière, nulla può contro l’ubicazione del cesso dei disabili. Questa è la civiltà italiana con la quale bisogna fare i conti, malgrado sul palco la parola «cultura» sia stata pronunciata, sbandierata, inneggiata una miriade di volte. L’assessore regionale Simona Renata Baldassarre ha ripetuto che «occorre far cultura», che «fare cultura è fondamentale»; ma purtroppo ci si dimentica che è la cultura dei pochi a fare una comunità di valore e non il contrario. Gli altri, quelli che reggono il timone, sono impegnati a occuparsi delle misurazioni dei gabinetti, della loro disposizione: questa è la verità. Altro che cultura!
Valutare la collocazione del gabinetto per i disabili in un posto anziché in un altro, mi ha fatto tornare alla mente quel famoso sketch di Totò con Nino Taranto, i quali (in Totòtruffa 62) portano in giro per Roma un vespasiano che li aiuta a strappare ai ristoratori piccole tangenti affinché il «coso» venga istallato non qui ma altrove, nei pressi del locale concorrente. Quel «coso», che è un oggetto utilissimo e porta il nome di un grande imperatore romano, diventa nel film il simbolo di una corruzione a buon mercato. Non è certamente questo il caso, tuttavia il ridicolo resta. E la farsa ha preso una consistenza ancor più avvilente quando un gruppo di contestatori, impavidi di fronte all’annoso problema del «coso», ha invaso la ribalta con tanto di striscione, e il capo della ciurma, prendendo il microfono, ha incitato la protesta contro l’elezione di De Fusco e contro il sistema con cui vengono gestiti i teatri.
Benedetti ragazzi autolesionisti, ma allora non avete capito nulla! Non avete capito quanto, in un paese come il nostro, in cui un «coso» per disabili impera e fa slittare di un anno la riapertura di un sipario settecentesco, sia controproducente protestare. Il Valle non riesce a ripartire perché un altro gruppo di contestatori, tredici anni fa, fece irruzione nella sala (proprio come voi oggi, con la stessa protervia, lo stesso impulso ribelle, anche se con ben altra determinazione) e il teatro chiuse i battenti. A cosa portò quella protesta, ci avete pensato? Cosa è cambiato da quel dì? Raggiunsero qualche traguardo prefisso, quelli di allora? Sono stati accontenti? I loro desideri furono forse esauditi? Vi siete fatti i calcoli di quanti spettacoli in meno ha usufruito la città e quanti attori e macchinisti non hanno avuto la possibilità di lavorare in tredici anni? Dopo quell’esperienza che fece soltanto rabbia ai cittadini di romani, scippati del loro teatro simbolo, chi potrà più dar credito alle vostre proteste? La vostra parola, purtroppo, è screditata in partenza, ha perso ogni valore: nessuno vi prenderà sul serio, perché grazie a quei contestatori il Valle è rimasto chiuso per 13 anni: corresponsabile certamente anche un gabinetto fuori posto.