03 maggio 2024

Ancora su «I masnadieri». Lettera aperta

Roma, 3 maggio 2024

IN RISPOSTA ALLA RECENSIONE DI M. LUCIDI

Caro Lucidi,

ho letto con piacere le tue osservazioni allo spettacolo su I masnadieri, e ancora una volta ho ammirato quanto la materia artistica, soprattutto quella teatrale che è la più labile e suadente, possa mettere d’accordo due pareri discordanti. A me l’operazione di Michele Sinisi è piaciuta e non poco, proprio in virtù di quella energia che tu giustamente sottolinei. Tuttavia, ripensando alla costruzione drammaturgica del testo di Schiller è impossibile contrastare il tuo pensiero che si basa su solidi argomenti letterari, ossia di scrittura, di come l’autore ha costruito personaggi e situazioni per un’opera che mai avrebbe dovuto andare in scena.

Non a torto, contesti al regista che «il protagonista Karl non è il personaggio ribelle» di Schiller, ma diventa «lo spirito stesso della ribellione, che suo fratello Franz non più un vizioso bensì il vizio personificato». È vero, testo alla mano, hai ragione e mi trovi d’accordo. E condivido pure che Sinisi cerca talvolta di superare la difficoltà dell’interpretazione astratta «con forzature mascherate da energia, con urla ed eccessi recitativi», anche se ho il sospetto (condiviso con altri spettatori) che le urla che tu hai notato, io, protetto dalle insicurezze che la prima rappresentazione solitamente incute agli attori, non le abbia potute ascoltare allo stesso volume delle tue.

Mi trovo in disaccordo con te, invece, quando scrivi: «Chi non possiede la chiave, scassa la serratura». Proseguendo la tua bella metafora, credo che Sinisi, stavolta abbia ritrovato la chiave della serratura della porta di servizio che, per altri cunicoli, ugualmente conduce al cuore del sentimento che ha generato in Schiller la forza creativa di quei «mascalzoni e farabutti». Nella sua operazione, Sinisi – lo stesso che mesi fa tentò una simile impresa sui Sei personaggi pirandelliani, fallendo clamorosamente – ha optato per una dichiarata supremazia del regista, come osarono fare certi grandi che ben ricordiamo, riuscendo, non a correggere Schiller, che sarebbe l’iniziativa di uno sciocco, ma traducendo nel nostro linguaggio che oggi è più figurativo che verbale (vedi quanti like riceve sui social una qualunque scialba fotografia rispetto alle nostre inutili recensioni) il sentimento del giovane Schiller.

Stendhal diceva che è romantico ciò che è moderno e interessante. Ecco, il punto. Ricordo un allestimento dei Masnadieri di Lavia (ai tempi ancora non mi dilettavo a scrivere così di frequente) con Umberto Orsini, e, se la memoria non mi tradisce, a parte l’indiscutibile valore dei protagonisti, ho la sensazione che vi fossero lunghi momenti di pesantezza, dovuti proprio alla conservazione di un linguaggio sentimentale (non verbale) strutturato in un’epoca distante dal momento in cui andò in scena. Era il 1982.

Per non cadere in questo tranello, Sinisi ha offerto (vedi la recensione) a uno degli attori, quell’Amedeo Monda, abile scivolatore in scena, la possibilità di annientare la lingua parlata di Schiller, ma di esprimere, con suoni simili a un precario grammelot, l’ansia, l’impeto, l’«energia» del significato emotivo che spinse la creazione letteraria dei Masnadieri. Ciò significa, come scrive Isaiah Berlin in un meraviglioso saggio sul tema, che «il Romanticismo ha a che fare con la comprensione delle forze che animano la nostra vita», e quindi, non quelle dei nostri antenati. Sappiamo bene che esiste e resiste una forza Romantica in ogni epoca e ogni epoca (vedi postilla su Nietzsche) è permeata del suo modo di esprimersi: furono vittime di spiriti romantici sia Cristo che Maometto, perché ciascuno visse e interpretò la sua passione utilizzando il linguaggio più chiaro ed «esplosivo». Quello ecclesiastico, da cui abbiamo attinto per la nostra educazione culturale, purtroppo, nella Passione di Cristo ci ha voluto leggere altro, e soltanto quello, ma la rappresentazione della Passione che Cristo scelse per se (e non per altri) non è lontana dallo spirito fondamentale che Schiller attribuisce al suo eroe: uno stato interiore governato dalla necessità di lasciarsi guidare dalla natura e dal desiderio, ossia dall’essenza della vita. Karl Moor, per proteggere la sua vitalità e il suo senso di giustizia, preferisce tirar fuori il selvaggio che è in lui (le urla di cui si parlava prima), preferisce scivolare (quante se ne sono viste nella regia del Sinisi) spinto dalla forza del desiderio che non è in grado di padroneggiare, perché non vuole. Proprio come Beethoven, che preferisce rinchiudersi nella sua misera vita, socialmente rozza e inesistente, ma gioire della sua passione che traduce in musica e che gli consente di non scendere mai a compromessi, proprio come Cristo e proprio come Karl Moor.

In conclusione, credo che quella energia che Sinisi propone come asse portante del suo allestimento emotivo, non sia un errore, ma rispecchi esattamente il senso del Romanticismo, dove la parola letteraria cede il posto al linguaggio dell’anima selvaggia che si nasconde in tutti noi masnadieri.

Un caro saluto, tuo affezionatissimo

Fausto Nicolini

Foto: © Simone Galli

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