«IL GRANDE FRATELLO VI Dà IL BENVENUTO IN TEATRO»
Poco prima che le luci di sala si spegnessero, una registrazione ha avvertito che il Grande fratello dava agli spettatori il benvenuto in teatro, come se non bastasse quello televisivo! Per fortuna si trattava di un GF di differente spessore intellettuale, il quale raccomandava di non impressionarci delle scene di violenza (fittizia) o delle macchie di sangue (finto) che si sarebbero viste durante lo spettacolo, nulla di peggio di quel che accade ogni giorno per strada. L’annuncio così terminava: «Spegnete i telefoni cellulari: il Grande fratello vi spia. Non fate i furbi». Naturalmente non tutti hanno spento il cellulare, e non per furbizia, ma per strafottenza: s’era già capito che il GF spiava soltanto i suoi cittadini (rappresentati dagli attori sul palco) i quali per due volte, nella prima scena, sono stati costretti a consegnarli alle autorità, ma quando poi in platea è squillato un cellulare, l’allarme del GF purtroppo è rimasto silenzioso.
Lo squillo del telefono in teatro non è mai un segno di civiltà, tuttavia, il fastidioso trillo stavolta suonava come un atto di viva ribellione più che di antipatica maleducazione. Per un perverso gioco del caos, infatti, noi – che eravamo il riflesso del mondo che si rappresentava sul palco – eravamo vivi, mentre loro, nostri modelli originali, si dichiaravano morti: e soltanto perché i loro cellulari non potevano squillare, mentre i nostri sì. George Orwell sarebbe stato fiero di quest’imprevisto accidentale che avrebbe restituito fiducia alla sua idea di rivoluzione: ossia di disobbedienza al potere occulto. Così, mentre dal palco ci arrivava un ammaestramento tratto dal manuale stalinista, con riferimenti a tutti i regimi totalitari degli ultimi secoli, noi in platea eravamo ben felici di poter sbandierare il cellulare illuminato come vessillo – di ultima generazione, s’intende – di repubblica democratica fondata sul libero squillo del telefono. Evviva!
1984 è una data qualunque: un gioco numerico che l’autore creò per indicare un periodo futuro. Orwell scrisse il suo romanzo più famoso nel 1948, ma concepito negli anni della guerra; anzi, forse prima, probabilmente durante la dittatura di Hitler, durante il fascismo di Mussolini, e non dimentichiamo il franchismo del Caudillo. Eppure, tutti i riferimenti alla società da lui immaginata sono «rubati» ai metodi sovietici, che lui criticava come controrivoluzionari, perché minacciavano il significato liberatorio delle teorie socialiste. Scrive di suo pugno: «Il mio ultimo romanzo non deve essere inteso come un attacco al socialismo, ma come una dimostrazione delle perversioni a cui è esposta un’economia centralizzata, perversioni che sono già state in parte realizzate dal fascismo e dal comunismo. Non credo che il tipo di società che io descrivo necessariamente si realizzi, ma ritengo (tenendo conto del fatto che il mio è un libro satirico) che qualcosa di simile possa accadere».
Altro che! Osservando l’allestimento che Giancarlo Nicoletti ha ideato per il teatro e tradotto dall’adattamento scenico di Icke e MacMillan, l’intero apparato politico e il contesto sociale – quello che per anni ha interessato gli intellettuali del secondo Novecento – su cui l’autore s’è concentrato per costruire un perverso mondo futuro, risultano per fortuna decisamente vecchi. Non esiste più il pericolo di quel fascismo (anche se in molti faticano a crederlo), ci siamo liberati dall’angoscia di un socialismo capitalistico, e anche il comunismo esasperato sopravvive soltanto nelle nostalgie di qualche fanatico, insomma, lo stato di salute della nostra libertà (o, se preferite, democrazia) anche se non è al top, è certamente migliore – assai migliore – di quel che Orwell ha satiricamente ipotizzato. Tuttavia il criterio di controllo sull’uomo, proprio quello che l’autore indica quale maggiore satira, è nelle nostre mani e noi lo sbandieriamo come vessillo di libertà.
Il dramma è tutto qui, signori, che noi ci illudiamo costantemente di aver raggiunto un traguardo tecnologico che ci permette di viaggiare in luoghi e tempi con il solo movimento di un dito, ma ci dimentichiamo troppo spesso che quell’aggeggio, che ci consente di essere aggiornati sul passato, sul presente e sull’immediato futuro, non è altro che l’occhio del Grande fratello immaginato da Orwell quasi ottanta anni fa. Eppure, di quest’ombra tetra, se ne aveva già qualche sospetto. Attenzione, però: l’autore ci avverte che il controllo non è solo fisico o economico, non riguarda soltanto la parte concreta della nostra esistenza, ma è molto più profondo e nocivo. È un controllo del pensiero, perché sarebbe opportuno che l’uomo del futuro si esercitasse a non pensare; è un controllo del linguaggio, perché, per semplicità, costui dovrebbe imparare a usare meno vocaboli così da formulare frasi più banali; dovrebbe trovare il coraggio di distruggere le parole per parlare con quelle poche che il nuovo vocabolario (tecnologico) gli suggerisce.
Il cosiddetto «partito» che Orwell replica nel romanzo sul disegno sovietico, noi ce lo siamo messi in tasca e da questo prendiamo ordini e acquisiamo abitudini. Ce lo portiamo anche in teatro per mostrare le foto del passato agli amici che incontriamo e per prendere appuntamenti prossimi con qualche messaggio, usando perlopiù il correttore automatico che ci suggerisce le parole da utilizzare per guadagnare tempo e per isolarci meglio in un mondo senza sentimento. Nello schermo del nostro cellulare, c’è tutto il senso drammatico del romanzo di Orwell.
Foto: Violante Placido con Woody Neri (© ???)