UN TESTO CHE IMPONE UNA RECITAZIONE ULTRAVELOCE
Per un attimo m’è sembrato di vedere tutte le Tragedie in due battute di Achille Campanile correre sul Frecciarossa! La sensazione è nata perché, per recitare il testo di Duncan MacMillan, ci vogliono due Polmoni grandi – ciascuno – come la cassa di un contrabasso! Frase che ha tutte le caratteristiche di una semplice boutade, nemmeno troppo spiritosa, eppure contiene due precise indicazioni sulla pièce vista allo Spazio Diamante, in scena fino a domenica 20. La prima, più evidente, spiega perfettamente il titolo che, contrariamente alla consuetudine, si appoggia non sul significato del dialogo, ma direttamente sull’abilità degli attori che s’impegnano a recitare il copione tutto d’un fiato, senza interruzioni. Dunque, occorrono due bravi interpreti – bravi davvero – giovani e possibilmente non fumatori. La seconda indicazione, invece, riguarda il testo scritto, ed è il punto su cui verte la critica.
MacMillan, infatti, usa una scrittura che sembra ritmata da un metronomo che impone una recitazione velocissima. In scena sono Lui e Lei, giovani fidanzati, che iniziano una convivenza sotto i migliori auspici, ma piccole contrarietà si moltiplicano a ogni momento. La trama – che evito di riassumere – si conclude al tramonto della vita, con la vecchiaia. L’autore, quindi, racconta l’intera odissea di una coppia che si ama, litiga, si divide e torna insieme, in poco più di un’ora. I salti temporali, com’è ovvio, sono tanti e repentini, e la scrittura, che è ben leggibile in palcoscenico, prende il sopravvento su tutto il resto: sui personaggi, sul dramma, sugli attori stessi, sulle loro capacità di recitazione, sui loro respiri tecnici. Perfino le ossessioni di lei, le sue paure di madre, le sue fisime ambientaliste, che pilotano gli umori della coppia, sembrano guidati da una frenesia che giunge da lontano, dall’esterno, da un deus ex machina che, in questo caso, è l’autore.
Michele De Paola e Marisa Grimaldo sono molto bravi e convincenti, preparatissimi ad affrontare i 10.000 metri con la fuga di un centometrista. Lui perfetto, a lei talvolta le si sciolgono sulla lingua alcune parole, ma è comprensibile e perdonabile, anche perché obbiettivamente il suo personaggio ha molti più ostacoli emotivi lungo il percorso. È lei che pone le questioni di una vita «politicamente corretta», è lei che si chiede come mantenere la retta via per essere una persona perbene; è lei che non vuole essere come sua madre; è lei, donna, che comincia a far la moglie (anche senza anello al dito) e a prendere in mano le redini di una famiglia che ancora non c’è. È lei, soprattutto, che facilmente si lascia coinvolgere dalle nevrosi di una responsabilità enorme che lui, invece, quasi ignora.
I quadri, che si susseguono rapidissimi e quasi sempre senza cambiamenti di luce, e con pochissimi oggetti di scena, diventano anch’essi nevrotici. Troppo: proprio com’è diventata la nostra quotidianità che distrugge ogni sentimento, che ci toglie il respiro. Ma tanta frenetica simbiosi con la vita giova al palcoscenico? Tra una parola e l’altra, ci si accorge all’improvviso che sono trascorsi giorni o mesi o addirittura anni. Il difetto non è da individuare nella recitazione, ma proprio nel testo che è scritto così, senza lasciare spazio alle pause, alle riflessioni, né ai respiri più profondi. E, se lo si vuole proporre senza una regia più complessa (e non soltanto concentrata sulle battute) che ne modifichi la struttura per dare maggior sollievo alla godibilità dell’interpretazione, va da sé che la mise en espace somigli più a un saggio di recitazione che a uno spettacolo completo. La domanda è una sola: a teatro, l’occhio vuole la sua parte oppure no? Anche i radiocronisti, quando ci raccontano una partita di calcio, mettono sotto sforzo polmoni e diaframma per farci immaginare al meglio delle emozioni l’andamento della gara, ma noi non li vediamo: li ascoltiamo soltanto, e ne apprezziamo la professionalità.
Foto: Michele De Paola e Marisa Grimaldo (© Elisa Vettori)