14 ottobre 2024

«Giovanna d’Arco» di Maria Luisa Spaziani

Roma, Teatro di Villa Torlonia
13 ottobre 2024

«ROSA DI MAGGIO CHE AL SUO TEMPO S’APRA»

Non siamo a maggio e, fuori, nel giardino di Villa Torlonia, le rose non sono in fiore, ma il monologo poetico che inaugura il cartellone del Teatro di Roma, composto in versi da una ispirata Maria Luisa Spaziani, ha tutte le parvenze di una rosa che sboccia. Il luogo insolito e fascinoso, la musicalità della poesia, l’intensa interpretazione e un essenziale e curato allestimento contribuiscono ad ammaliare lo spettatore indicandogli il fausto inizio di una nuova stagione (quella teatrale, ovviamente). Luca De Fusco, che per l’occasione debutta da regista nelle vesti di direttore dello Stabile capitolino, ripropone un suo cavallo di battaglia, che è una minuziosa opera da camera per voce solista: Giovanna d’Arco, scegliendo nel ruolo della pulzella d’Orléans Mersila Sokoli. La quale dimostra, ancora una volta, di aver superato la temporanea fase di attrice emergente, a favore di una più competente e duratura interprete protagonista.

Il testo, scritto di getto nel 1988, andò in scena per la prima volta nel 2004. Da allora De Fusco lo ha conservato quasi intatto anche nei successivi allestimenti, adattandolo ai luoghi che ne ospitavano le rappresentazioni. Nato per il teatro in un castello di Vittorio Veneto, dopo alcune tappe in territorio campano, approda oggi a Roma sul palco elitario di Villa Torlonia, come fosse un amuleto scaramantico per il neodirettore, il quale però avverte che quest’anno ricorre il decimo anniversario della morte della Spaziani (30 giugno 2014).

La storia di Giovanna d’Arco, vissuta nella prima metà del 1400, si ammanta di leggendari particolari: c’è chi la dipinse come una strega, chi impossessata dal maligno, chi colpita da follia, eppure i versi della poetessa torinese, ma romana d’adozione, la descrivono senza individuare nessuna di queste caratteristiche, ma anzi lasciando sgombra da ogni interpretazione storica l’anima di una eroina che finalmente trova nelle parole la libertà del suo pensiero e dei suoi ricordi. Antiche scritture sostengono che Giovanna sia scampata al rogo e che abbia sposato Robert des Armoises: la Spaziani muove il suo estro da questa congettura, ma subito se ne distacca lasciando che l’emozione dei versi prenda il sopravvento sugli episodi storici.

Non è quindi una stranezza se Mersila Sokoli, tenace ed energica pulzella nell’espressione e nell’andatura più che nell’aspetto fisico, non accenna mai né a un atteggiamento di strega, né a un’allusiva follia, e nemmeno dà l’idea di essere un fantasma che racconta le sue imprese dopo la morte. Piuttosto è il ricordo di se stessa che rivive con vigore il tempo della sua tragica beatitudine in terra, illuminata da una luce che diventa la sua voce prima, poi quella dell’angelo, e infine quella di Dio che la chiama a sé con la bellezza del fuoco. Un richiamo, dunque, non una condanna.

De Fusco ha pensato di sistemare il pubblico (40 sedie, non una di più), a formare un’ellisse, intorno al luogo del racconto, sul palcoscenico del teatro: tutti protagonisti dell’ascolto di una voce che arriva da lontano e che subito si riflette, visiva, come un’ombra nella nicchia deserta del primo ordine sopra la platea, laddove materialmente manca una statua. Ma quel vuoto, con la sagoma della protagonista, si riempie di teatralità e dà valore scenografico all’intero allestimento: le statue all’interno dell’emiciclo, opportunamente illuminate, diventano gli angeli che confortano Giovanna; la volta irradiata dal basso simboleggia l’Onnipotente; il fondo della platea arrossata riempie di fiamme la scena. Lo spettatore ha soltanto l’incombenza di seguire attentamente il preciso gioco di luci – uniche evidenti indicazioni di regia – che si sposta dal palcoscenico alla platea e viceversa, per comprendere l’intimo colloquio di Giovanna con «il tempo che non sa volare». Ossia, la noia, dice la Spaziani. La pulzella d’Orléans, quindi, è morta, ma la morte la annoia, e, per evitare la noia dell’Aldilà, racconta la sua storia per poter continuare a volare con gli angeli che l’hanno accompagnata in battaglia e per lei hanno sventolato lo stendardo bianco in prossimità delle Tourelles.

Ora, però, mi chiedo, e con un certo rammarico: perché in una realizzazione scenica così semplice (elementi scenici) e allo stesso tempo complessa (struttura), così precisa (luci) e vibrante (recitazione), così affascinante (musica) e poetica (testo), la brava Sokoli è costretta a indossare un abitino che sembra essere stato raccattato su una bancarella? Sbrindellato e corto tanto da costringere l’attrice, per coprire le parti più intime, a calzare un moderno pantaloncino attillato che non c’entra nulla né con il personaggio, né con la poesia e nemmeno con quel meraviglioso gioco di luci e d’ombre che De Fusco ha ideato. Come può accadere che tanta meticolosa cura di particolari non abbia compreso anche la vestizione? Cos’è successo? (fn)
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Giovanna d’Arco, di Maria Luisa Spaziani. Con Mersila Sokoli. Musiche, Antonio Di Pofi. elementi scenici e costume, Marta Crisolini Malatesta. Regia di Luca De Fusco. Al teatro di Villa Torlonia

Foto: Mersila Sokoli (© Claudia Pajewski)

 

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