«NON HANNO SENSO NÉ VENDETTA, NÉ RANCORE»
Pagliaro porta la maestosità dei versi di Sofocle nelle antiche grotte di Testaccio
Affrontare l’antica tragedia, senza poter usufruire della vastità e del fascino storico che la struttura di un teatro greco conserva da diversi millenni, è impresa assai delicata. I tre grandi autori tragici scrissero per un pubblico che affollava immensi spalti all’aperto, e oggi la rappresentazione di un’opera classica al chiuso pone, a qualunque regista, alcune questioni che soltanto una sensibile versatilità d’interpretazione può risolvere. Walter Pagliaro, dopo aver portato Trachinie a Siracusa (nella scena dov’è nata la tragedia), tenta di comprimere la maestosità dei versi di Sofocle nelle antiche grotte di Testaccio: spazi sotterranei, cunicoli angusti, una volta molto bassa sopra le teste degli spettatori che, invece di assiepare le gradinate, sono seduti su rigide panche poste intorno alla scena su tre lati. Insomma, un luogo concepito architettonicamente con teorie opposte a quelle del classico teatro di Epidauro, dove la gente si alzava, camminava, chiacchierava. Dunque, una vera e propria sfida.
Il teatro di Documenti è uno dei più originali luoghi di spettacolo della capitale. Chi lo conosce avrà immediatamente intuito la difficoltà di ambientazione di un’opera corale, a cielo aperto, in una trasmutazione tombale. Pagliaro non ne ha fatto un adattamento intimistico, ma anzi ha volutamente lasciato l’ampio respiro del mondo antico. Due sono i punti in cui ho avvertito più sonoramente uno stridore: il primo riguarda la musica, il secondo la recitazione. Quando suona il sax di Garbarek, la grotta accoglie il fiato in maniera naturale, direi, istintivo; quando invece si espandono le lunghe note di Wagner, la caverna sembra volerle soffocare. Quando la recitazione è soffusa, e la tragedia monta nelle pieghe di un lucido pantano ideato ad hoc da Gianni Carluccio, il male serpeggia viscido tra la protagonista e le corifee; quando, al finale, Eracle grida il suo dolore e la sua rabbia, gesti e voce sembrano sbattere come un rimbombo impazzito nella stretta gola dell’Idra di Lerna. Anche il coro, cantato a due voci, conserva un tratto recitativo più esteso di quanto consenta l’ampiezza dell’antro di Luciano Damiani.
Il regista, ovviamente, sposta la scena dall’esterno del palazzo in una sala interna. Il luogo angusto e cupo, illuminato con alcune lampadine, in sostituzione delle candele che annunciano la morte di un amore, offre anche alcune possibilità che esaltano soprattutto l’intimità del caos che governa il furore di Deianira. Il pathos che Micaela Esdra trasmette al pubblico – seduto praticamente a ridosso dell’attrice, mentre lei si dispera tra ira e gelosia – in certi momenti è quasi tangibile e quanto più la sua voce soffoca nel tormento, tanto più l’uditorio partecipa all’angoscia come fosse il coro, se non nella parola, almeno nel fisico e nel calore. Sorprendente è l’ingresso di Lica che dalla scalea conduce Iole, una pantera nera al guinzaglio, tutta veli e iniquità, alla quale manca soltanto il ruggito feroce. Un’apparizione di grande effetto che fa sentire l’eco della sua presenza anche quando il personaggio scompare.
La tragedia, dopo qualche lentezza iniziale, quindi, si sviluppa e si conclude. Per l’ultima scena il pubblico viene invitato dalle corifee a trasferirsi in una sala attigua, dov’è allestito un piccolo palcoscenico, sul quale Eracle (ancora la Esdra, fasciata e in sedia a rotelle), appare vecchio e ormai moribondo. La presenza improvvisa di un luogo deputato più consueto dà l’impressione di una scelta più teatrale dell’eroe, il quale s’appresta all’esibizione dell’ultimo canto del cigno. La rappresentazione della sua fine. Sa che sta per morire e vuole il popolo dinanzi a sé. Sofocle ce lo presenta come un uomo, ma non bisogna dimenticare che è anche un semidio e merita rispetto. A differenza della moglie che invece sparisce nel nulla. I suoi toni diventano rarefatti, mansueti, quasi lirici, e, come un grande attore, cerca di strappare l’ultimo applauso per le sue imprese.
Una nota sociale. Riproporre ai giorni nostri la tragedia raccontata dalle Trachinie (ossia, le donne della città di Trachis, rappresentate dal coro), diventa un’occasione per meglio riflettere sulla persistente, ormai abituale, diatriba sulla violenza di genere, argomento che sempre più spesso prende pieghe di fanatismo più che di razionalità. Questo stesso fanatismo si può rintracciare nell’azione vendicativa che Deianira, nome che letteralmente significa colei che annienta gli uomini, riserva a suo marito, eroe vigoroso, personaggio influente che subisce un tentato omicidio (che poi lo porterà alla morte) soltanto perché in casa sua s’è sparsa la voce di una probabile infedeltà (prove non ve ne sono). Lei, moglie ferita, presunta vittima di tradimento, è pronta, senza nemmeno approfondire la questione, a vestirsi da inesorabile carnefice, usando l’astuzia più che l’efferatezza, per firmare l’omicidio di suo marito. Parola di Sofocle. Che saggiamente avverte: «Non hanno senso né vendetta, né rancore».
- È morta.- Un prodigio.- Di sua mano.- Peccato!
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Trachinie, di Sofocle, traduzione di Salvatore Nicosia. Scene Gianni Carluccio. Costumi di Annalisa Di Piero. Con Micaela Esdra (Deianira/Eracle), Fabrizio Amicucci (Lica), Elisabetta Arosio (Nutrice/Messaggero/Vecchio), Fabio Maffei (Illo/Iole), Cristina Maccà (Prima Corifea), Valeria Cimaglia (Seconda Corifea). Regia di Walter Pagliaro. Al teatro di Documenti, fino a domenica 27
Foto: Micaela Esdra nella parte di Eracle, con Fabio Maffei ed Elisabetta Arosio (© Mattia Simoncelli)