NO, NON HO DETTO LAGIOIA, MA NOIA, NOIA, NOIA
Quel che più dispiace è che dopo la piacevole e interessante esperienza offerta, al Romaeuropa Festival, grazie allo spumeggiante gruppo catalano dei Baro d’evel, sia proprio una compagnia nostrana a proporre uno degli spettacoli più soporiferi e inadeguati degli ultimi anni, tanto che ci si domanda come e perché un simile allestimento faccia parte di una kermesse che invece predilige qualità e stile eterogeneo. Dal testo alla recitazione, dalle luci alla musica, ciascun contributo pareva agire per mano di Morfeo. La ferocia, che nasce da un romanzo di Nicola Lagioia, vincitore anche del Premio Strega (2015), viene portato in scena dalla Compagnia teatrale VicoQuartoMazzini che ha sede in Puglia, in quel di Terlizzi, cittadina del barese che ha dato i natali a Nichi Vendola, che era seduto in platea. Tra le tante cariche che il deputato ha avuto durante il suo mandato di parlamentare, ricordiamolo, ci fu anche quella di presidente di Sinistra Ecologia Libertà, partito che ebbe vita breve, ma che si batteva per difendere territorio e ambiente. Argomento non del tutto improprio al tema della pièce. Lo vedremo.
Anche Lagioia è nato a Bari, e questo particolare, che è una coincidenza, è soprattutto un peccato, perché il testo dovrebbe varcare i confini e allargarsi su orizzonti più ampi, invece, per come è stato allestito in maniera casalinga, implode su se stesso, riducendo il pathos a sterili faccende illecite di una Italia truffaldina che ben conosciamo. L’intero lavoro, che è sbandierato sotto l’egida europea, risente di un provincialismo piccolo piccolo, e lo scandalo che si propone di denunciare, in effetti, fa notizia, come si dice in scena, esclusivamente sui quotidiani locali: La Gazzetta del Mezzogiorno, infatti, viene nominata più volte.
Non azzardo a criticare l’autore del romanzo (che non ho letto), tuttavia, credo che l’adattamento di Linda Dalisi non abbia centrato i sentimenti dei personaggi originali. Lagioia, in alcune interviste, insiste, come fosse l’anima del suo racconto, sull’intenso rapporto che unisce sorella e fratello, paragonandoli addirittura ai protagonisti del capolavoro di Emily Brontë. Nella versione drammaturgica, invece, il legame tra Clara e Michele non c’è: certamente lo si comunica al pubblico, ma resta un sentimento non vissuto, fissato come in una didascalia, quindi teatralmente inesistente.
La mancanza dei sentimenti – è la logica e spietata conseguenza di palcoscenico – porta i personaggi creati per la letteratura da Lagioia a non vivere davanti al pubblico, ma soltanto a raccontarsi. E in sala la noia aumenta. No, non ho detto Lagioia, ho detto noia, noia, noia, maledetta noia! La ferocia di un padre che all’inizio attende con trepidazione la notizia della morte di sua figlia non basta ad accendere la curiosità di tanta scelleratezza, perché immediatamente gli affari – i cattivi affari – prendono il sopravvento sull’intera famiglia Salvemini e la vicenda umana di Clara passa in secondo piano, perché offuscata dalla confusione sentimentale che domina nel copione. I personaggi parlano spesso in soliloqui senza interagire. Ciascuno dichiara al pubblico le sue angosce, la propria sottomissione coatta all’egoismo scellerato del capofamiglia senza ribellarsi. Ne vien fuori una cattiveria senza sbocchi e senza alcun interesse, dove l’unica emozione (per i protagonisti) è la polvere bianca. Diciamo la verità: la vita dei cocainomani, a meno che non siano dei geni, è poco interessante e soprattutto poco teatrale. La storia si impantana in una palude di corruzione edilizia, di smaltimento di scorie che danneggiano l’ambiente, e attorno al tavolo da pranzo i commensali si sentono prigionieri delle angherie di Vittorio Salvemini. Sarà un’altra coincidenza, ma a me pare una brutta trama incentrata su ecologia e libertà. Pazienza!
Foto: La ferocia (© Francesco Capitani)