RITRATTI DI VITA NAPOLETANA IN VIA PRENESTINA 230
Alla presentazione del cartellone del nuovo spazio teatrale di via Prenestina, il 12 giugno scorso, questo fu uno degli spettacoli che più mi incuriosì. Le poche parole dei protagonisti che illustrarono la loro opera coinvolsero subito la mia curiosità partenopea. L’attesa e l’interesse crescente nei confronti della realizzazione scenica di Francesca Muoio e Luca Trezza ha fiaccato sul nascere l’improvvisa pigrizia che, alla vista di un forte acquazzone abbattutosi sulla capitale e alle sconfortanti notizie del traffico impazzito che paralizzava la città, stava lievitando minacciosamente. Dunque le aspettative erano alte. Forse troppo. Tant’è che quando mi accingevo a prendere posto in sala, ho notato con un pizzico di delusione la non-scena: a terra, verso il fondo, una serie di abiti (e qualche accessorio) erano perfettamente allineati di fronte al pubblico. Tra i differenti «mucchietti» ho riconosciuto un giubbotto maschile imbottito, una parrucca bruna, vari occhiali e un bastone. A uno sguardo più generico e più napoletano ho realizzato che si trattassero d’ ‘e pezze ‘nterra per i travestimenti. E devo ammettere che non mi sono sbagliato.
In greco Fonès significa suono della voce. In greco antico, naturalmente. E infatti Trezza apre lo spettacolo, con una breve introduzione, parlando delle antiche mura greche che sorreggono molti palazzi del centro storico di Napoli, che sono ben visibili nei sotterranei della città, e soprattutto tra gli scavi fatti per la nuova linea della metropolitana. Sono mura costruite con il tufo, materiale assai poroso che, oramai vecchio di qualche millennio, si spolvera sotto la carezza di una mano. Su questa pietra sono stati rinvenuti dei graffi, piccoli solchi, che hanno ispirato un canto di voci inarrestabili. Per la coppia Muoio-Trezza, infatti, questi sono segni vocali che vengono fuori dal cuore della polis, che parlano, che urlano, che raccontano ‘e fonès ‘e chisti viche: i suoni di questi vicoli, le loro voci.
Anche la premessa dello spettacolo, dunque, s’è fatta interessante: mentre ascolto, la suggestione cresce e si concentra sul passato, su una probabile ricerca storica di una lingua oggi mortificata dall’ignoranza e dall’imbastardimento delle razze campane. La parlata di Trezza mi conquista. La sua dizione sembra verace (una bella conquista per un salernitano), timbra tutte le finali (quelle che oggi non sono neanche più scritte), perfino quelle mute: le mie aspettative cominciano a sentire odor di soddisfazione. Poi attacca lei, Francesca Muoio: interpreta con dolcezza una ragazza che vuol fare la ballerina, ma si rivolge alla persona sbagliata, il quale l’accarezza, forse troppo intimamente, e lei si sente già sporca, prima ancora di cominciare.
Tuttavia mi accorgo che non è una storia dell’antichità, ma d’un periodo ben più recente; non è un grido soffocato dal tempo che esce dalle mura greche, come m’aveva invitato a credere sia il titolo che la premessa. Anche le narrazioni successive si modernizzano sempre di più. I personaggi che si alternano, tra lui e lei, e che raramente entrano in collisione, ma anzi rispettano fin troppo drasticamente i loro settori (come due giocatori in un campo da tennis), sono ben pensati, ottimamente disegnati e interpretati. Ognuno dispone del suo guardaroba d’ ‘e pezze ‘nterra e mentre Luca recita, Francesca si abbiglia a vista per la nuova esibizione: ora è Ornella ‘a pazzarella, poi Rosinella alle prese con un pappagallo ereditiere, la donna che osserva la corte di un gabbiano innamorato di una palommella (un quadretto assai poetico). Ciascuna vicenda si alterna con quella di un personaggio maschile (e non solo).
Foto: Luca Trezza e Francesca Muoio (© ???)