Roma, 11 ottobre 2024
PETER STEIN: UN TEATRO DEMOCRATICO E SENZA CONFINI
«Io non voglio vedere su un palcoscenico ciò che posso vedere per strada, o sul mio pc, io voglio vedere una cosa diversa, voglio essere trasportato in un sistema di pensiero differente, non in quello dell’oggi in cui sono immerso; io voglio che il teatro mi regali un’altra prospettiva». Sono parole di Peter Stein, quelle che più chiaramente sintetizzano il senso teatrale del grande regista europeo, più che tedesco, le stesse che Gianluigi Fogacci ha scelto per la quarta di copertina del libro che ha pubblicato nel 2021 (ed. Manni), e che si intitola Un’altra prospettiva. La vita e il teatro di un Maestro, intervista fiume su emozioni ed esperienze, gioie e delusioni di chi ha vissuto con e per il teatro. Nato nel 1937 a Berlino, quando era capitale di una Germania ancora unita, prima del Patto d’acciaio (1939) tra Hitler e Mussolini, Peter Stein è stato svezzato sotto il dominio nazista: «Dai quattro agli undici anni ho dovuto rinunciare alla mia infanzia e alla prima gioventù».
Fogacci non è un giornalista, ma un attore, un bravissimo attore, e, frequentando Stein, ha sentito il bisogno di fissare su carta i pensieri e i ricordi personali, ma soprattutto artistici del suo Maestro: un percorso antitetico – è scritto nella breve prefazione – all’opera di un regista di palcoscenico. «Il lavoro del teatro – spiega l’autore – vive solo nel momento in cui accade» e Stein, deluso da altri tentativi precedenti, pare fosse abbastanza diffidente dal raccogliere e fissare una testimonianza sulla sua parabola artistica e umana. Il libro, però, per come si sviluppa nel dialogo e nella conoscenza tra intervistato e intervistatore, acquista un’intimità preziosa che svela, pagina dopo pagina, l’interesse cortese e minuzioso dell’allievo per il suo Maestro e la confidenza graduale e fiduciosa del Maestro per il suo allievo. È un bene, quindi, che Fogacci non sia un giornalista, ma un attore. Un attore di Peter Stein.
È vero, gli attori lavorano con chiunque (o quasi), e un attore non è mai di un solo regista, ma ci sono Maestri che fanno la differenza plasmando l’educazione (più che la professionalità) di un commediante e lasciano un segno indelebile. Fogacci, classe 1966, conosce Stein nel 1989 (aveva 23 anni) quando venne scelto per il Tito Andronico di Shakespeare, una delle tragedie più violente del Bardo. Dopo altre innumerevoli partecipazioni agli spettacoli firmati dal tedesco, ancora quest’anno è protagonista assoluto in I danni del tabacco, atto unico del trittico dedicato a Cechov: Crisi di nervi (dal 29 aprile al Quirino di Roma).
Violentando la sua innata timidezza, è riuscito a far breccia nel carattere riservato, o forse scettico, del Maestro e a costruire una sorta di manuale storico del teatro europeo, visto da uno dei suoi promotori e protagonisti: ossia quell’idea di teatro senza confini che ancora è poco sviluppata anche tra le più moderne concezioni dei Festival europei all’interno della Comunità. Concetti sociali che sposano quelli culturali e politici, allora impensabili in una Germania post-bellica, ma necessari per una svolta nel teatro moderno, finalmente inteso come effettivo impegno civile. Oggi probabilmente ci si affiderebbe alla tecnologia e ai social per parlare al paese, ma all’epoca il palcoscenico era l’unica possibilità, davvero libera e indipendente, per far sentire le voci fresche e pulite di un popolo che faticosamente doveva ritrovare una propria coscienza dopo la guerra, dopo i campi di sterminio e la conseguente «spessa coltre di silenzio sui crimini» commessi.
«Per avere informazioni abbiamo dovuto documentarci» sul passato, spiega Stein, che aveva come obbiettivo quello di costruirsi una sua «biblioteca interna» con tutto ciò che leggeva, e, viaggiando, un suo «museo interno» con le immagini da fissare nella memoria. All’università s’era iscritto a storia dell’arte, storia della letteratura e ha sentito un’attrazione istintiva per l’arte, senza però trovare un vero sbocco artistico: «Ho deciso quindi di non fare arte, ma di occuparmi di arte» con un bagaglio culturale che cominciava a sostenere le sue idee intellettuali innovative. Così, dopo le prime esperienze con Fritz Kortner al Kammerspiele di Monaco, s’è avvicinato al teatro democratico della Schaubühne in una Berlino già fratturata dal muro: in Italia, ancora oggi, «è difficile pensare che una compagnia di attori decida la distribuzione dei ruoli», fa notare Fogacci.
«Innanzitutto – risponde il Maestro per illustrare meglio il concetto di democrazia – anche la scelta dell’opera passava per i voti. Poi, per decidere il cast, tutti avevano una settimana di tempo per fare un’ipotesi di distribuzione». Si intuisce che i tempi di lavorazione per un allestimento erano molto più lunghi dei nostri. Non a caso nel libro si legge più di una volta che le richieste per il periodo di prove fossero quasi sempre di due mesi ed oltre. Un aspetto professionale che con il nostro sistema di lavoro odierno sarebbe improponibile. Ecco il motivo che, a metà degli anni Novanta, ha spinto Peter Stein, ormai trasferitosi definitivamente in Italia, ad acquistare in Umbria la tenuta di San Pancrazio, dove attualmente vive con sua moglie, Maddalena Crippa. È il luogo dei sogni, dove spesso si avverano: una casa patronale con una torre medievale, la chiesa, il fienile, i campi da coltivare e un teatro che gli consente di studiare insieme con i suoi attori ogni volta che ha un’idea che si può concretizzare. S’inizia da uno stage per approfondire il mondo dell’autore, per comprenderne il linguaggio, e non solo. Quindi ci si addentra nel testo discutendo insieme. E insieme ci si conosce. E conoscendosi si lavora meglio con gl’interpreti e con i personaggi, ma anche con il regista che ha l’occasione di aprire la finestra sul suo passato e rispolverare quegli episodi che hanno sollecitato l’intervista da parte dell’allievo al Maestro.
Foto: la copertina del libro, Peter Stein durante le prove di «Roberto Zucco» (© Ruth Walz)