CON KUBRICK NELLA STANZA DELLA TORTURA
Non credo di sbagliare se azzardo che lo studio di Luca Ariano e di Pietro Faiella sul Riccardo III di Shakespeare, proposto al teatro India fino al 10 novembre, sia un adattamento idealmente suggerito da Kubrick, se non addirittura da Burgess. Lo scrittore, infatti, titolò il suo romanzo più famoso ispirandosi a una espressione tipica dello slang londinese, Clockwork orange, riferita a colui che è (o che pare) «sballato come un’arancia a orologeria»: come se il suo cervello fosse composto da tanti spicchi, non collegati l’uno all’altro, e con la capacità di funzionare uno alla volta, alternandosi grazie a un ipotetico congegno a tempo. È «l’Arancia meccanica», frutto seducente e succoso, apparentemente ripieno di dolcezze, ma che invece riveste una natura imprevedibile e bacata. «L’inganno si nasconde in un supplizio così suadente», dice, infatti, la regina madre al figlio appena incoronato.
L’accostamento tra il Duca di Gloucester e i quattro sciagurati protagonisti (che nel romanzo sono soltanto tre) del film, che tutti conosciamo, di Stanley Kubrick, arriva da più indicazioni che il regista di questa distopica operazione teatrale replica con assoluta simmetria: in primis, l’abito bianco e attillato che indossa il duca (se avesse osato anche la bombetta nera sarebbe stato identico); poi, l’impronta perlopiù maestosa delle musiche scelte (se avesse usato pure la Nona di Beethoven sarebbe stata una palese dichiarazione); e anche la manifesta follia, burlesca e ridicola, di re Riccardo dopo che ha indossato la corona, atteggiamento che corrisponde a quello ameno e strafottente di Alex, il capobanda, ogni qual volta viene arrestato. Considerata la violenza dei loro intenti e la corruzione morale dei due animi, non dovrebbe essere difficile comprendere il motivo della scelta di questa bizzarra simbiosi tra il personaggio shakespeariano e quello di Burgess. Anzi, verrebbe la curiosità di sapere quanto abbia pescato, l’autore di «Arancia meccanica», nella miniera d’oro delle tragedie del Bardo.
Per raggiungere l’obbiettivo, Ariano e Faiella hanno pensato di rinchiudere la pazzia del Duca di Gloucester in una stanza dalle pareti bianche, illuminata da una luce accecante, una scatola a doppio (anzi triplo) fondo, proprio come fossero gli spicchi dell’arancia della sua mente bacata che, a comando, si aprono e si richiudono. In questo alveo latteo che talvolta si colora, nel quale nessuno proietta la sua ombra, nemmeno in terra, segno che non sono reali esseri viventi, si avvicendano molti personaggi della tragedia: sono apparizioni evocate dalla mente - forse un sogno, forse un incubo - del re assassino, che gli ricordano le sue scelleratezze. Si ha l’impressione che siano tutti fantasmi, che siano loro le ombre proiettate dalla coscienza di un re malvagio come Riccardo III, ma anche folle come Enrico IV (Pirandello). Due personaggi legati da follia e solitudine.
Nella prima parte, quando il duca ordisce e complotta l’uccisione degli eredi al trono d’Inghilterra, il candore della stanza immacolata, priva di ogni elemento, e la diderottiana recitazione di Pietro Faiella, esaltano la logica spietata del piano «seduttivo» del futuro re: una cattiveria, vestita di bianco, talmente coerente e meticolosa che sembra essere l’unica opzione da perseguire. In effetti, si tratta della più mansueta perversione del pazzo che, con lucida demenza, incanta, conquista e seduce la folla, portando gli spettatori dalla sua parte: è la banalità del male allo stato puro. Peccato che gli interventi musicali siano davvero eccessivi: tutti brani facilmente riconoscibili (da Verdi a Mozart ai Beatles) e che quindi facilitano la distrazione.
Foto: © Manuela Giusto