PER COMINCIARE A LEGGERE IL NOSTRO ANIMO
L’atmosfera delle favole appartiene a Giancarlo Sepe come una parola al vocabolario. Gli appartiene per natura intellettuale, per concepimento mentale ed emotivo; e da lì non può scappare, perché Sepe si è appoggiato attorno a questa passione, che è un capolavoro di astrazione, e le ha donato concretezza. Già entrando nel suo teatro sembra di immergersi in un antro favolistico in bianco e nero, dove alle pareti svetta l’immagine della favola cólta, della favola surrealista, i cui protagonisti sono sempre adulti destinati all’afflizione di dover guardare la realtà da un osservatorio assai infantile e puro. E in occasione dell’omaggio a Oscar Wilde – spettacolo che torna in scena a 24 anni dal suo debutto – è palese il riscontro. Si entra, infatti, in una giostra che sarà avvolta dal buio, facendoci diventare gli oggetti del dissidio di un gioco per bambini guastato da un diversivo per adulti: lo stesso contrasto che si verifica tra il piacere distensivo offerto dall’ascolto di una favola annunciata e la sensazione claustrofobica che avvolge lo spettatore durante la visione.
Favole di Oscar Wilde, più che un titolo è una dedica. È nel sottotitolo che va ricercato il senso del lavoro di Sepe: per cominciare a leggerle, ossia predisporsi con l’animo aperto ad accogliere il mondo delle favole, certamente quelle di Wilde, ma non soltanto le sue che sono dichiaratamente per adulti, ma forse, allargando l’orizzonte, le favole in generale, favole come stato elettivo. Oscar Wilde non è il pretesto per quest’operazione che diventa più ampia nel panorama della letteratura immaginifica, ma ne è lo slancio, il sogno d’amor che s’accompagna alle notti di carezze (come canta Nadir nella famosa romanza de «I pescatori di perle» che apre e chiude il buio). Notti bianche! Dostoevskij avrebbe certamente condiviso che per entrare nelle pieghe di questo originale scenario bisogna essere fortemente sognatori, tenacemente sognatori: dimenticare tutto il realistico quotidiano, spicciolo e noioso, volgare e onnipresente (cellulari compresi!), per abbandonarsi al «realismo del sentimento, che pure ci attraversa nella vita di tutti i giorni – scrive Sepe – e al quale non cediamo per pudore o per paura» di affogare.
«Favole di Oscar Wilde» è un invito a purificarsi l’animo per affrontare meglio la lettura e la comprensione del dolore e della bellezza, due forme d’arte che sono sempre state silenziosamente sposate, e che oggi facciamo fatica a vedere unite. Ed è qui che entra perentorio il dramma di Wilde, che s’è sempre battuto per dar valore alla bellezza nella quale lo scrittore ha concentrato il suo dolore per la caducità della vita: Dorian Gray ne è il personaggio emblematico. Sepe pone gli spettatori all’interno di una cella da cui si osserva la passione, in varie forme, scivolare dietro i muri a ricordare che la passione è dolore. «Il dolore, essendo la massima emozione di cui sia capace l’uomo, è insieme simbolo e pietra di paragone di tutta la grande arte», parole di Wilde. Dolore e bellezza non fanno parte del nostro mondo, che è piccolo, come la pedana sulla quale siamo seduti (34 spettatori a sera, non uno di più), e che inconsapevolmente ci farà girare su noi stessi. Tutt’intorno, alle nostre spalle, al di là di alte pareti nere, attraverso squarci grandi e piccoli, quadrati e rettangolari, più alti e più bassi, tenui luci ci indicano l’esistenza di un’altra vita, di un’altra possibilità, tanto estetica quanto densa di passione. «Rinnegare tutto per la passione», è il suggerimento chiave che ci giunge, mentre un ritratto di Cristo s’illumina, l’unico oltre ai tanti del poeta irlandese.
Foto: Favole di Oscar Wilde (© Manuela Giusto)