UN PADRE PIENO DI RIMORSI, CHE STRISCIA NELLA VERGOGNA
Sei personaggi in cerca d’autore, grazie a quel debutto molto contestato al Teatro Valle nel 1921, resta tra le opere teatrali la più interessante e sorprendente della modernità. Alla lettura sfiora la perfezione: è l’unica, infatti, che tenta di far rappresentare un dramma dai suoi stessi personaggi; è la sola che mette in discussione la possibile imperfezione degli attori che, interpretando un ruolo, son pronti a caratterizzarlo, ciascuno a suo modo, allontanandosi dall’originale. Tutte le altre opere, invece, si indentificano nel gioco della finzione, dando per scontato che le parole di un autore passino attraverso un commediante che ne dà una sua versione e ne costruisce un suo «pupo». Luigi Pirandello invece portò alla ribalta un problema, all’epoca nuovo, da sbrogliare: un enigma da allora tante volte affrontato e sempre più ingarbugliato. Un problema che fino ad oggi non s’è mai potuto risolvere, ma che Valerio Binasco con la sua messinscena ha maggiormente evidenziato e sottoposto a una drastica e accurata revisione.
La contraddizione più evidente del testo rappresentato sta nel fatto che le parole che l’autore scrive per il ruolo del Padre le deve pronunciare, comunque, un attore. E un attore – un primo attore – tenterà sempre di recitare la sua parte al meglio; cosicché le parole di un uomo piccolo, caduto nel vizio e rimasto agganciato e sospeso a quell’atto imbarazzante per l’eternità, invece di rappresentare la sua gogna, diventano il trampolino di lancio per una grande interpretazione: voglio dire che mentre sulla carta il padre resta personaggio goffo che soffre, in palcoscenico l’attore trionfa nell’arte del raisonneur, di colui che filosofeggia con pensieri che lo innalzeranno a vincitore assoluto, mentre invece è un omuncolo piccolo piccolo, pieno di rimorsi che striscia nella vergogna.
Quanti grandi attori abbiamo visto interpretare il ruolo del Padre, e tutti si sono lasciati abbindolare dal fascino della parola cólta, dal ragionamento filosofeggiante, dal linguaggio ardito e musicale che si snocciola così facilmente nella sua costruzione. Tutti immancabilmente hanno trovato la forza, in quel capolavoro letterario, di rialzare la testa a danno di un grave peccato commesso. Lo si spiega bene, in questa edizione, con una piccola aggiunta al testo, quando il Padre viene accusato dal Capocomico di voler competere con Dio; e l’altro ribatte: «Anche Dio è uno di noi!». Ebbene, Valerio Binasco pare abbia fatto esperienza osservando i suoi colleghi più anziani, e di questo bagaglio pregresso, talvolta lezioso e addirittura pretenzioso (come dimostra la battuta aggiunta) ma sicuramente di immenso prestigio attoriale, ne ha tenuto conto per proporre un Padre che non è più l’indiscusso padrone della scena, non è più colui che si fa portavoce di un dramma familiare, non è più quell’affabulatore che trionfa con le parole sul male che lo affoga, ma anzi è il male che lo affoga a strozzargli in gola la sua autodifesa, quasi da renderlo balbuziente, uomo finalmente inetto e reso succube della sua vergogna.
Basterebbe questa sfumatura a rendere la versione vista l’altra sera al teatro Argentina una delle migliori, ma ce ne sono altre da non sottovalutare. E la più evidente è una diretta conseguenza della prima: ossia la centralità del dramma familiare focalizzata, non più sulla dialettica del Padre, ma sul dolore del Figlio, il quale, parlando poco, solitamente è stato messo in disparte, fisicamente usato con parsimonia; invece, qui la sua muta sofferenza è sempre sovraesposta e fa da contraltare all’irruenza della Figliastra. È vero, tutto il dramma gira intorno al Figlio: al rapporto che la Madre non riesce ad avere con il primogenito, motivo per il quale i due fratellini più piccoli moriranno, si dice, «per abbandono». Sì, Binasco ha avuto l’ardire di correggere Pirandello per spiegare meglio un dettaglio, per rendere più chiari i rapporti e scoprire al meglio il male che provocherà le più terribili conseguenze.
Ecco l’autentica novità che il regista s’è proposto: andare in scena avendo ben definite le relazioni emotive tra i quattro protagonisti. Laddove ha sentito la necessità di aggiungere qualche parola chiarificatrice, l’ha fatto senza esitazioni. Così come ha avuto il coraggio di togliere tanti orpelli inutili al dramma: depennata la maggior parte degli interventi degli attori (non c’è più una Prima attrice e nemmeno un Primo attore); saltata a piè pari la scena di Madama Pace (cosicché i Sei personaggi del titolo sono davvero sei e non sette!), perché, a ben guardare, già la recitazione di Padre, Madre, Figlio e Figliastra è tendenzialmente spinta sul grottesco, e la tenutaria spagnola, con quella sua parlata così colorita, sarebbe diventata davvero eccessiva in un allestimento che invece ha cercato di contenere le esagerazioni soltanto sulla Figliastra. E al finale niente più altalene tra «realtà» e «finzione»: un argomento già consumato nel prologo delle prove del «Giuoco delle parti», quando l’attrice che interpreta Silia si dibatte tra la realtà dell’odio di suo padre e la finzione del palcoscenico, due disillusioni che si sovrappongono, e che poi ritroveremo nel dramma centrale.
Non mancano riferimenti (anche questi aggiunti) al modo di far spettacolo oggi, a cominciare dal sipario aperto a metà che il pubblico può osservare mentre prende posto in sala: si usa in occasione di lutti nel mondo artistico, ed è un’allusione a un certo tipo di teatro che ormai è sepolto, così come Pirandello giudicava morto il teatro dell’Ottocento. A mio parere la più incisiva contestazione è che si reciti senza l’ombra di un microfono, a conferma che chi si vuol far sentire ci riesce con la tecnica d’attore e non con l’aiuto tecnologico. Ma Binasco si sofferma sulla musica in sottofondo che è un’altra usanza oscena dei nostri tempi (soprattutto televisiva) e sulla necessità, ormai stucchevole, di riproporre classici in forma omosessuale. Sono accorgimenti che rendono l’allestimento più fresco, più vicino al nostro mondo, meno letterario e più teatrale. Non stonano perché sono incisivi e immediatamente repressi. Nonostante le nuove battute, i tre atti sono stati ridotti a un’ora e quaranta minuti. Qualche ragionamento è andato perso, è vero, ma il senso del dramma s’è compattato perdendo in complessità e guadagnando in chiarezza.
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Sei personaggi in cerca d’autore, di Luigi Pirandello. Scene, Guido Fiorato. Costumi, Alessio Rosati. Luci, Alessandro Verazzi. Musiche, Paolo Spaccamonti. Suono, Filippo Conti. Con (in o.a.) Sara Bertelà (La madre), Valerio Binasco (Il padre), Giovanni Drago (Il figlio), Giordana Faggiano (La figliastra), Jurij Ferrini (Il capocomico) e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta. Regia di Valerio Binasco. Produzione: Teatro Stabile di Torino. Al teatro Argentina, fino al 30 marzo
Foto: Giordana Faggiano, Sara Bertelà e Valerio Binasco (© Virginia Mingolla)