NELLA TEBE DI DE ROSA SUONA UN’ORCHESTRA DI LUCI
I teorici della letteratura individuarono alcuni valori per determinare il carattere romantico di un uomo. Facilmente si giunse alla conclusione che i romantici non potevano essere raggruppati in un unico periodo storico, quello che solitamente si fa coincidere con la fine del XVIII e la prima metà del secolo successivo, ma che invece sarebbe stato più corretto affermare che ogni periodo aveva i suoi romantici, i quali attribuivano massima importanza all’integrità d’animo, alla sincerità e alla disponibilità a sacrificare la vita per un ideale. In Edipo re, questi valori, ci sono tutti: è lui che minaccia la pena dell’esilio per l’autore dell’uccisione di Laio (integrità di sovrano); è lui che vuole arrivare alla verità allorquando i sospetti lo vedono coinvolto (sincerità d’animo); ed è lui che al finale, constatata la sua colpevolezza, chiede di essere esiliato (disponibilità a sacrificare la vita per mantener fede al principio enunciato all’inizio). Edipo è un re moralmente integerrimo, colpevole solo perché gli dèi lo hanno costretto all’errore con un inganno. Se Edipo avesse saputo che Laio fosse suo padre, non l’avrebbe mai assassinato. Se non fosse stato trascinato nel delitto di uno sconosciuto a causa di una volontà superiore non sarebbe mai caduto in fallo e non avrebbe mai attirato la sciagura su di sé. Dunque Edipo, fuori dal mito, ha tutte le caratteristiche per essere un personaggio romantico.
Di questo sconcertante (ma forse neanche troppo) romanticismo edipico, Andrea De Rosa ne fa il fulcro della sua straordinaria regia, costruendo, intorno ai protagonisti, un’autentica sinfonia (come fosse quella di Beethoven, il più romantico dei musicisti), non con la musica, ma fatta di luce. Lassù, in alto, appesi alla graticcia, ci sono soltanto tre proiettori, sul palcoscenico, però, c’è un’intera orchestra di fonti luminose che suonano al ritmo delle battute, che si riscaldano sugli adagi e si infuocano sui fortissimi e sui maestosi, si assottigliano e si tendono come corde di violino in un assolo e diventano all’improvviso glaciali, asettiche, perentorie, come certe dissonanze che stridono prima del movimento successivo. Ci sono anche i timpani che sbattono contro alcuni riquadri che filtrano una luce riflessa proiettandola in un’eco chiassosa, e poi i bagliori incandescenti delle alogene. È pura musica, ma in luce. Una luce che partecipa e recita insieme agli attori, che si muove con loro, e che ha il compito di accendere di romantiche passioni umane una vicenda che spesso è rimasta legata al mito.
De Rosa accompagna con continui effetti luminosi le intonazioni e i movimenti, i caratteri e gli alterchi secondo una precisa indicazione del testo. I sei attori sono quasi sempre tutti in scena: spostano i pannelli trasparenti alcuni dei quali hanno dipinto una simbolica fascia che determina la cecità della propria volontà: tutte le cause della tragedia – l’abbiamo capito – sono in mano agli dèi, non agli esseri umani. «Non è il momento di spargere il male», piuttosto di far valere «l’arte del vedere le cose nascoste». Sono tanti i riferimenti sottolineati dalla traduzione e dall’adattamento del testo che alludono al desiderio di vedere, di far luce sulla verità che è un’esigenza esclusiva degli uomini e mai degli dèi. Sin dal principio è annunciato che l’assassino di Laio «è qui, in mezzo a noi – dice Edipo – e io farò luce». Poco dopo Tiresia lo rimprovera: «La furia che non riesci a vedere è dentro di te». E ancora Edipo, al finale: «A cosa servono gli occhi, quando non c’è più nulla da vedere, a cosa serve la luce quando non c’è più nulla da vedere». Sono frasi che diventano suggerimenti di regia e che De Rosa sfrutta come un direttore d’orchestra usando una forma espressiva astratta, lontana dalla tragedia, come fosse uno spartito musicale di un’opera lirica.
Insieme alle fonti luminose che diventano protagoniste, ci sono anche i microfoni che vengono usati per dar corpo alle voci che diventano anch’esse strumenti, ora profonde e stridule (un lungo acuto di Francesca Della Monica contiene tutto il pathos della tragedia), ora cavernose e dolci (come i canti etnici – in greco – che introducono gli episodi: bella voce di Francesca Cutolo). Finché si tratta di produrre effetti vocali particolari, il contributo tecnico è indispensabile, e qui addirittura scenografico, ma quando le voci si affidano agli archetti che ciascuno mostra su gote e zigomi e che procurano, in certe situazioni di stretto contatto, inevitabili e fastidiosi rumori imprevisti, allora vien da chiedersi: sono proprio necessari i microfoni, non bastano le aste in scena, occorrono anche quelli sul viso? Perché il regista non vuole farci sentire le voci nude, naturali? D’accordo, non si può aver la botte piena e la moglie ubriaca! Anche perché – e questo a onor del vero va detto – la recitazione non è mai abbandonata alla naturalezza, c’è sempre, in tutti, un’impostazione classica sostenuta dalla scrittura di Sofocle, che solo così è valorizzata. Insomma non è mai una tragedia da camera, ma ben si sposa al clima di un mito universale.
Foto: Roberto Latini (in piedi), Marco Foschi tra le braccia di Frédérique Loliée (© Andrea Macchia)