17 marzo 2025

«Fanny» di Rebecca Déraspe

Roma, Teatro Tor Bella Monaca
16 marzo 2025

A GIORDANI, IL TAPIRO D’ORO PER IL MICROFONO RAZIONATO

In tempi di siccità ci siam dovuti piegare al razionamento dell’acqua, in tempi di guerra abbiamo affrontato il disagio del razionamento del pane, in tempi di austerity ci siamo abituati al razionamento della benzina, ma il razionamento dei microfoni ci trova assolutamente impreparati. Partecipammo ai delicati sospiri della Cortese, partecipammo ai gracili sussurri di Eduardo, partecipammo al timbro tonante di Gassman e al grammelot di Fo, partecipammo con irruenta protesta alle amplificazioni di Carmelo Bene, ma il razionamento dei microfoni ci trova assolutamente impreparati. Protestammo per i microfoni che riproducevano i passi più della tosse, protestammo per i microfoni gracchianti incastrati sotto il colletto della camicia, protestammo per i microfoni altisonanti e quelli con l’eco incorporato, ma i microfoni a controllo limitato ci lasciano perplessi e disarmati.

L’amato Peppino* sorriderà per questa audace rielaborazione, in forma ironica, della preghiera che chiude il suo Silenzio, ma se mezzo secolo fa si sentì il bisogno di cantare poeticamente il naufragio della parola, adesso non si può che prendere in giro la scelta incongrua di offrire in scena l’amplificazione, a chi sì e a chi no, secondo un principio di gerarchia dettata dalla locandina: ai primi cinque spetta il microfono, gli altri si arrangino con la propria voce. Un criterio che coincide con quello che una volta si adoperava per distribuire i camerini: i primi nomi ne avevano uno ciascuno, mentre al coro e alle comparse era destinato un unico stanzone per tutti. Così, con una pensata strabiliante più che originale, Silvio Giordani riesce a stupire l’uditorio, tanto da meritarsi, se fossimo a Striscia la notizia, l’ambito Tapiro d’oro, per aver trovato il modo di dimostrare finalmente che tra un attore che recita senza microfono e un altro che gode dell’aiuto dell’amplificazione, è certamente più comprensibile e affascinante quello recita senza microfono. Bravo Giordani, questa sì che è un’iniziativa degna di chi ama il palcoscenico e vuole lasciare un segno nella storia del teatro contemporaneo.

Tuttavia, anche se le voci dei non amplificati si sentono perfettamente nella loro verace nudità, gli equilibri sonori lasciano a desiderare. Alcune voci fresche ed esitanti giungono dal palco, altre più possenti ed edulcorate, dalle casse poste a lato del boccascena. Pazienza, bisogna farsene una ragione: in tempi di magra, lo si intuisce, non c’è voce per tutti! Ed è sciocco trovare scuse, o puntare il dito sull’acrimonia del critico: se non ci sono apparecchi sufficienti per l’intera compagine, la causa può essere soltanto una. Mancanza di fondi. E non mi imbarazza dirlo, perché la stessa difficoltà è ricaduta sull’idea base della regia che, invece, se inizialmente la si osserva con sospetto, poi diventa la cifra vincente.

Mi spiego. Dario e Fanny (Adriano Evangelisti e Maria Cristina Gionta) formano una coppia innamorata e serena. Non avendo figli decidono di affittare una camera della loro abitazione a una studentessa diciottenne. Poi l’azione, secondo copione, si sposta in discoteca, poi torna in casa di Dario, poi all’università. E le scene si susseguono saltando di luogo in luogo. Ci sarebbe stato da impiegare fior di quattrini per metter su una scenografia adatta che consentisse tanti cambi e tanti costumi. Invece, tutto si svolge secondo il principio dell’immaginazione, sfruttando la prima regola del teatro: la finzione. Per cui quando Dario e Fanny bevono un bicchiere di vino, basta il gesto di afferrare un’ipotetica bottiglia, versare il nettare in un calice immaginario, fare un cenno per il brindisi e sorseggiare. «Buono questo rosso», dice Fanny, e noi sappiamo pure il colore del vino. In scena ci sono soltanto dei cubi di legno che all’occorrenza diventano sedie e tavoli, oppure cattedra e letto. La cucina è sul fondo con i pensili che si aprono, e in proscenio c’è anche un grande acquario con i pesci: una luce che si riflette su un telo lucido. Arredo tanto enigmatico quanto metaforico.

Tutta questa «approssimazione», tipica di quando si cominciano le prove, diventa astrazione appena ci si abitua al gioco dell’inganno. Un escamotage grazie al quale la regia trova i tempi serrati di ogni scena, come se queste fossero passate in sequenza al montaggio cinematografico. Una buona soluzione che evita momenti di buio ed estenuante trambusto, ma pure mostra alcune pecche. Gli attori, infatti, non avendo punti di riferimento concreti negli oggetti, a volte eseguono i gesti con eccessiva fretta e sbadataggine, mentre è proprio la precisione meticolosa che fa, di un’idea astratta, la realizzazione artistica. Occorre far molta pratica e lavorare insieme per scindere i tempi della gestualità dai ritmi di recitazione: non è facile, ma è determinante per la buona riuscita dell’operazione.

Assai bizzarro, comunque, concludere la recensione parlando del testo, ma s’è dovuto dare la precedenza a chi ha stupito. E stavolta il regista, nel bene e nel male, è stato insuperabile, rubando perfino la piazza alla prima attrice che ha trovato in Fanny un personaggio su cui poter investire le proprie brillanti capacità. Rebecca Déraspe, autrice assai arguta e provocatrice, immagina per la sua protagonista una serie di incontri-scontri che la porteranno, dalla tranquillità di una vita coniugale (anche se poi si scoprirà che non è ufficialmente sposata), alla tempesta sociale e poi… e poi… e poi... C’è molta ironia nelle battute, e molto sarcasmo nelle diatribe che si affrontano, ma c’è anche tanta critica al mondo dei più giovani che, se da una parte guardano con tenacia e convinzione a un futuro più indipendente e libero da legami, dall’altra – ossessionati come sono da «contro la violenza», da «contro il patriarcato», da «contro la contestualizzazione dei sentimenti» – rischiano di rinchiudersi in un freddo ed intimo affetto senza abbracci e con scarsa solidarietà.

Alter ego di Fanny è Alice (Camilla Pujia) in rappresentanza di una generazione convinta che il bene sia soltanto la contestazione delle abitudini borghesi da cui Fanny, incuriosita e tentata, vorrebbe all’improvviso prendere le distanze, e nelle quali Dario trova le sue certezze e le mantiene, diventando l’albero maestro di un mondo alla deriva. Nella vita di Dario e Fanny, per certi versi troppo tranquilla e ordinata (pare che non litighino nemmeno), Alice è la miccia che in silenzio fa detonare la bomba e ciascuno dei tre compie un percorso di crescita individuale e sentimentale che lo condurrà a cambiamenti stravolgenti che quasi non si notano. (fn)
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Fanny, di Rebecca Déraspe. Traduzione, Marco Casazza. Con Maria Cristina Gionta (Fanny), Adriano Evangelisti (Dario), Camilla Pujia (Alice), Francesco Nuzzi, Angelica Accarino, Anita Farina, Carmine Cacciolla, Alessandro Chiodini, Flavia Ferru, Nicole Desiderioscioli, Chiara Laccarino, Chiara Silano. Scene, Mario Amodio. Costumi, Lucia Mariani. Luci, Marco Macrini. Regia di Silvio Giordani. Produzione: Centro teatrale artigiano. Lo spettacolo sarà riproposto al teatro Roma, dal 26 al 30 marzo

Foto: Maria Cristina Gionta e Adriano Evangelisti (© Tommaso Le Pera)

* Giuseppe Patroni Griffi concluse Prima del silenzio con una preghiera in versi dedicata al naufragio della parola

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