«DOVE C’È TALENTO NON PUÒ ESSERCI VECCHIAIA»
Forse non sono più ragazzi, ma certamente sono irresistibili. Formano ormai una delle coppie teatrali più raffinate dell’ultimo periodo. Umberto Orsini e Franco Branciaroli, dopo aver debuttato insieme in Pour un oui ou pour un non di Nathalie Sarraute (con la regia Pier Luigi Pizzi) confermano le loro affinità artistiche rivestendo i ruoli dei protagonisti in I ragazzi irresistibili, classico della comicità americana di Neil Simon, che grazie al successo della pellicola con Walter Matthau e Georg Burns conquistò, già nel 1975, notorietà in tutto il mondo. «Dove c’è talento non può esserci vecchiaia», è la battuta che li fotografa in scena. Vederli insieme, infatti, è un piacere, e l’età non si vede: la loro recitazione riverbera di divertimento, di leggerezza, di quel raffinato esprit de plaisir che tanti bravi attori più giovani difficilmente riescono ad acquisire: non per incapacità, sia chiaro, ma – se è vero che il mestiere s’impara facendolo – per mancanza di esperienza sul palco con i grandi maestri. Fortunato, quindi, chi ha la possibilità di partecipare a quest’allestimento.
La commedia, scritta nel 1972, è ambientata nel 1959: un riferimento a Ben Hur ce ne dà la conferma. Willy (Branciaroli) è sbracato nel letto in una modesta stanza d’albergo. La televisione è accesa e trasmette un film che, dall’audio, sembra d’epoca, della stessa di quando lui era una star del palcoscenico e faceva coppia con Al Lewis (Orsini). I due «ragazzi», infatti, sono due attori comici sul viale del tramonto: per dissidi caratteriali, non si vedono e non si parlano da undici anni, ma l’occasione di registrare uno sketch televisivo offre loro la possibilità di ritrovarsi. I due personaggi, raccontati da Simon, sono ispirati a una famosa coppia di comici del vaudeville, Joe Smith e Charles Dale, meglio conosciuti come Smith & Dale, quando la Smith & Wesson era la più famosa pistola della malavita, ma loro sparavano soltanto battute per far ridere il pubblico, ed erano molto apprezzati nel primo decennio del Novecento.
Perché questi riferimenti storici? Semplice e giustificato. Nella fiumana che accompagnava l’uscita dalla platea, ho colto un paio di commenti inappropriati di due spettatori che, pur esaltando la bravura dei protagonisti, sottolineavano il «vecchio modo di far teatro». Evidentemente ai due signori è sfuggito che l’attenta regia di Massimo Popolizio, invece, vuole essere un preciso omaggio a quel mondo. La sensazione, infatti, è di assistere a un vecchio film in bianco e nero, proprio come quello che vede Willy all’inizio. La voce che Orsini s’inventa (mai l’avevo sentito arrivare a tonalità così alte) è tipica di una caratterizzazione dei vecchi comici. Anche in alcuni atteggiamenti – i movimenti del collo, per esempio – ricorda molto Stan Laurel, pur sostituendo alla tenera ingenuità dell’inglese una maliziosa circospezione di chi s’appresta ad affrontare una persona di cui non si fida troppo. La gag scritta dall’autore del dito puntato nel petto di Willy è un classico delle vecchie comiche e rappresenta lo spadino con cui Al si difende dalla «belva».
Ogni riferimento voluto dal regista, a cominciare dalle indicazioni per la scena realizzata da Maurizio Balò, è frutto di una ricerca in un mondo che non c’è più. Per alcuni, la messa in scena sarà certamente vintage, ma Popolizio non commette l’errore di voler attualizzare un testo delizioso che – diciamo pure la triste verità – se fosse scritto oggi, sarebbe immediatamente censurato dalle nemiche del patriarcato e dalle fustigatrici del maschilismo. La scena più incriminata sarebbe quella del secondo quadro, quando, nella sala di registrazione televisiva, un’avvenente ragazza dalla vocina altisonante come quelle delle starlette catapultate dal muto al sonoro, viene bersagliata dagli eloquenti apprezzamenti di Willy, finto burbero: di carattere opposto al suo antagonista, come le storiche coppie comiche, si accende con facilità esibendo una vigorosa gestualità, molto teatrale, con la quale accompagna le sue sferzate indirizzate a chiunque gli stia di fronte. Anche la traduzione di Masolino D’Amico riflette il mondo di un tempo passato, quando dire «negro» poteva anche non essere per forza un’offesa.
Foto: Umberto Orsini e Franco Branciaroli (© Nicolò Feletti)