I CRATERI DELL’ALZHEIMER
Quando l’orecchio ha catturato il termine «olistico», pur sentendomi impreparato, ho avuto la conferma che tutto quel che stavo vedendo e ascoltando era frutto di uno studio approfondito, oltre naturalmente alla verità di un dramma rappresentato perché vissuto. Benedetta Nicoletti, autrice del testo, ha scelto parole precise – e anche azzardate – per raccontare la destrutturazione della vita intellettiva dell’essere umano. Far riferimento al principio olistico, in questo caso, non è soltanto uno sfoggio di sapienza, un’erudizione ostentata come uno stendardo enciclopedico, ma diventa il perno scientifico (e filosofico) attraverso il quale si può cominciare a capire come progredisce il morbo di Alzheimer. Volendo rispettosamente mettere da parte ogni riferimento alle esperienze personali di chi ha vissuto il dramma in prima persona, e che ha voluto, con determinazione, portare in scena Intorno al vuoto, operazione certamente dolorosa, bisogna prendere atto che simili iniziative, tanto delicate quanto per un pubblico sensibile all’argomento, sono utili e preziose per l’informazione e la divulgazione che offrono.
Per prima cosa, infatti, appena arrivato a casa, sono andato a studiarmi cosa fosse l’olismo. Ho scoperto che si tratta di un principio secondo il quale un sistema complesso e composto (come il cervello) non può essere suddiviso in singole parti. Ecco che, se alcune cellule del cervello si deteriorano, non essendo sostituibili, l’intera massa ne risente rallentando progressivamente la sua attività. Sostituendo il pezzo difettato a un motore inceppato, invece, questo riprende a funzionare perfettamente. La macchina, quindi, non è olistica, mentre il cervello lo è. Le ricerche sulla malattia di Alzheimer fanno riferimento a questa antica teoria. Se ho appreso una nuova nozione che fino a ieri ignoravo, lo devo esclusivamente a un insegnamento còlto dal palcoscenico. Ed è questa la prima funzione del teatro.
Veniamo al dramma che è un ricordo di Liz, la figlia di Carol, docente universitaria di appena 50 anni, sposata con Paul. Il racconto si sviluppa in maniera non sempre cronologica, ma, secondo la tecnica del montaggio cinematografico, ascoltiamo una narrazione scomposta, in cui il presente è «disturbato» da flash del passato, da scene ambientate in luoghi differenti, condotte da personaggi che non sono sempre gli stessi. La regia di Giampiero Rappa si districa egregiamente nella scena di Laura Benzi che sceglie offuscate trasparenze per rappresentare una memoria in confusione, annebbiata, vuota. In questi vuoti Gianluigi Fogacci e Fabiana Pesce scivolano e s’intrufolano per scompigliare la mente di Carol, alternando le interpretazioni: lui, del marito e del neurologo, e lei, quelle della figlia e della dottoressa.
Il gioco teatrale – un gioco in questo caso crudele e perverso – si aggroviglia al disturbo di Carol e diventa per gli spettatori la visione ossessiva della malattia, la confusione generata dal deterioramento della sua mente. Chi sia l’uno e chi sia l’altra è una domanda che nessuno vorrebbe ascoltare, ma che alla fine purtroppo arriverà: «Chi sei?», chiede Carol alla figlia, quando la malattia sta finendo di svuotarle la memoria. Intorno a questo vuoto, che ogni giorno diventa sempre più arido e opaco, si agitano le anime di Paul e di Liz in un delirio doloroso che stravolge i loro sentimenti nei confronti della moglie e della madre: lui, gran lavoratore, sempre affezionatissimo, si dimostra ora distratto, quasi insensibile; lei, attrice alle prime armi, dapprima scontrosa nel rapporto materno, diventa invece il suo angelo custode.
Foto: Gianluigi Fogacci, Paola Giorgi e Fabiana Pesce (© ???)