26 gennaio 2025

«Anna Cappelli» di Annibale Ruccello

Roma, Teatro India
25 gennaio 2025

ANNA NEL CAMPO DEI MIRACOLI

Ci sono due momenti che rendono fertile il terreno incolto che Anna Cappelli calpesta con disprezzo e morde con i piedi per necessità; terreno brullo nel quale lei ci inciampa e ci affonda, per leggerezza e per gravità, per tedio e per fastidio; lo scalcia questo terreno, lo sfiora, l’accarezza, e ci si sdraia dentro (non sopra, ma dentro). Il primo indizio lo si deve leggere quando si entra in sala: Anna è lì, in scena, scalza, con una vesticciola sgualcita, i capelli arruffati, vede entrare gli spettatori e mantiene l’atteggiamento malato di chi attende una visita importante. Non si sa chi aspetta, ma certamente arriverà qualcuno a cui deve raccontare una storia, una storia malata anch’essa. Qualcuno che le offrirà un perdono o la punirà con una condanna. Anna, ancora con le luci di sala accese, mormora sedimenti di un passato, farfuglia timori e remore, con talmente tanta intensità che il pubblico (che ha capito benissimo che lo spettacolo ancora ha da cominciare) resta rispettosamente fermo e silenzioso a osservare: perché il delirio della protagonista è inquietante e contagioso.

Il secondo istante che aiuta a comprendere meglio il senso tragico di quel terreno giunge poco dopo, a monologo già cominciato, quando Anna si smuove i capelli e zolle di terra le cascano sulle spalle, le restano appiccicate tra le dita, le entrano nella veste, e lei cerca di disfarsene parlando, o forse confessando, come fosse la liberazione di un groviglio della mente, di un peso dell’anima. E allora ci si rende conto che tutto ciò che Anna calpesta, smuove, scava, rimesta, sono i ricordi che l’accompagnano in un percorso drammatico dove tutto è sotterrato dal silenzio e pian piano riemerge dalle viscere della disperazione. Così quel terreno diventa fertile della memoria di una vita che, dopo anni di patimenti e mortificazioni, ha conosciuto per un istante lo splendore abbagliante della speranza e della serenità.

Anna Cappelli è la storia di una ragazza di campagna che, giunta in città, si accontenta di vivere in una camera ammobiliata con la cucina in comune, sotto il dominio asfissiante della padrona di casa. Una vita d’inferno: piccola e meschina, solitaria e timorosa. Poi, in ufficio, dove è impiegata, simpatizza con il ragionier Tonino Scarpa – si piacciono – e va a vivere con lui. Tutto sembra essersi risolto nel migliore dei modi: ecco, dunque, la speranza, l’agio, la tranquillità. Anna sfiora la felicità con un dito. Il racconto – scritto da Annibale Ruccello nel 1986, che si ispira a un fatto di cronaca – prosegue descrivendo anche la china che precipita verso la follia.

Claudio Tolcachir, regista di lingua spagnola, grazie alla esemplare realizzazione scenica di Cosimo Ferrigolo, costruisce per Anna un campo dei miracoli, dove una lavatrice segna il punto di partenza: dalla fatica dell’obbedienza e della mal sopportazione, fino alla spensieratezza della cyclette o all’agiatezza di una collana. Uno specchio che l’aiuterà a riconoscere se stessa la metterà di fronte alla realtà che non è un sogno (ma chissà!). C’è anche la poltrona del piacere, che all’apice della serenità viene rovesciata, perché lì comincia la fase discendente, quella che piegherà Anna sul campo dello sterminio della sua breve ma intensa soddisfazione. Quindi sarà la volta di un altro elettrodomestico che chiuderà il cerchio della sua esistenza, congelando il ricordo di una fugace illusione. Tolcachir disegna un percorso logico, quasi matematico, che l’attrice segue con precisione emotiva a ogni passaggio, con qualche ritorno al passato dove s’abbevera per non dimenticare.

Si diceva della follia che è il punto focale della realizzazione di quest’allestimento. Valentina Picello incarna la follia prima ancora di cominciare e la mantiene, poi, sempre un passo avanti a sé per tutto il tempo della confessione; soltanto al finale se ne impossessa di nuovo con inaspettata determinazione. La follia, infatti, è costante nel resoconto dei fatti narrati; se ne sente l’ebbrezza; ma, durante il racconto che è un dialogo con i due invisibili interlocutori, si nasconde bene tra le parole, tra le lacrime, tra le sinuose logiche che Anna adduce. La follia diventa quasi tangibile durante un orgasmo: mentre il corpo è rappreso nell’atto sessuale con Tonino, il discorso raggiunge la padrona di casa per farla finalmente consumare d’invidia. La Picello certamente recita con la parola, mescolando nella parlata caratteristiche liquide scorie di un dialetto del nord, ma esprime più chiaramente i sentimenti attraverso il linguaggio del corpo che diventa anch’esso drammaturgia. La disperazione sta nel tremolio di un piede, l’esasperazione nella mano tesa, la felicità in uno sguardo al cielo. In effetti c’è follia recitativa nella Picello, la quale, pur se provata da tanta angoscia, riesce a trovare con semplicità il seme dell’umorismo per alleggerire il pathos, per sorridere di uno sconforto di cui se ne può fare a meno. (fn)
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Anna Cappelli, di Annibale Ruccello. Scene, Cosimo Ferrigolo. Luci, Fabio Bozzetta. Con Valentina Picello. Regia di Claudio Tolcachir. Produzione Carnezzeria, Teatro di Roma, Teatri di Bari, in collaborazione con Amat. Al teatro India, oggi ultima replica

Foto: Valentina Picello (© Luigi Angelucci)

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