ANNA NEL CAMPO DEI MIRACOLI
Ci sono due momenti che rendono fertile il terreno incolto che Anna Cappelli calpesta con disprezzo e morde con i piedi per necessità; terreno brullo nel quale lei ci inciampa e ci affonda, per leggerezza e per gravità, per tedio e per fastidio; lo scalcia questo terreno, lo sfiora, l’accarezza, e ci si sdraia dentro (non sopra, ma dentro). Il primo indizio lo si deve leggere quando si entra in sala: Anna è lì, in scena, scalza, con una vesticciola sgualcita, i capelli arruffati, vede entrare gli spettatori e mantiene l’atteggiamento malato di chi attende una visita importante. Non si sa chi aspetta, ma certamente arriverà qualcuno a cui deve raccontare una storia, una storia malata anch’essa. Qualcuno che le offrirà un perdono o la punirà con una condanna. Anna, ancora con le luci di sala accese, mormora sedimenti di un passato, farfuglia timori e remore, con talmente tanta intensità che il pubblico (che ha capito benissimo che lo spettacolo ancora ha da cominciare) resta rispettosamente fermo e silenzioso a osservare: perché il delirio della protagonista è inquietante e contagioso.
Il secondo istante che aiuta a comprendere meglio il senso tragico di quel terreno giunge poco dopo, a monologo già cominciato, quando Anna si smuove i capelli e zolle di terra le cascano sulle spalle, le restano appiccicate tra le dita, le entrano nella veste, e lei cerca di disfarsene parlando, o forse confessando, come fosse la liberazione di un groviglio della mente, di un peso dell’anima. E allora ci si rende conto che tutto ciò che Anna calpesta, smuove, scava, rimesta, sono i ricordi che l’accompagnano in un percorso drammatico dove tutto è sotterrato dal silenzio e pian piano riemerge dalle viscere della disperazione. Così quel terreno diventa fertile della memoria di una vita che, dopo anni di patimenti e mortificazioni, ha conosciuto per un istante lo splendore abbagliante della speranza e della serenità.
Anna Cappelli è la storia di una ragazza di campagna che, giunta in città, si accontenta di vivere in una camera ammobiliata con la cucina in comune, sotto il dominio asfissiante della padrona di casa. Una vita d’inferno: piccola e meschina, solitaria e timorosa. Poi, in ufficio, dove è impiegata, simpatizza con il ragionier Tonino Scarpa – si piacciono – e va a vivere con lui. Tutto sembra essersi risolto nel migliore dei modi: ecco, dunque, la speranza, l’agio, la tranquillità. Anna sfiora la felicità con un dito. Il racconto – scritto da Annibale Ruccello nel 1986, che si ispira a un fatto di cronaca – prosegue descrivendo anche la china che precipita verso la follia.
Claudio Tolcachir, regista di lingua spagnola, grazie alla esemplare realizzazione scenica di Cosimo Ferrigolo, costruisce per Anna un campo dei miracoli, dove una lavatrice segna il punto di partenza: dalla fatica dell’obbedienza e della mal sopportazione, fino alla spensieratezza della cyclette o all’agiatezza di una collana. Uno specchio che l’aiuterà a riconoscere se stessa la metterà di fronte alla realtà che non è un sogno (ma chissà!). C’è anche la poltrona del piacere, che all’apice della serenità viene rovesciata, perché lì comincia la fase discendente, quella che piegherà Anna sul campo dello sterminio della sua breve ma intensa soddisfazione. Quindi sarà la volta di un altro elettrodomestico che chiuderà il cerchio della sua esistenza, congelando il ricordo di una fugace illusione. Tolcachir disegna un percorso logico, quasi matematico, che l’attrice segue con precisione emotiva a ogni passaggio, con qualche ritorno al passato dove s’abbevera per non dimenticare.
Foto: Valentina Picello (© Luigi Angelucci)