25 gennaio 2025

«Il rito» di Ingmar Bergman

Roma, Teatro Vascello
24 gennaio 2025

L’ETERNITÀ DELLA BELLEZZA E IL LIMITE DELL’ARTE SOVVERSIVA

L’allestimento di Alfonso Postiglione dell’opera di Ingmar Bergman mi lascia in eredità due convinzioni: la prima è che la bellezza è un talento eterno e universale, la seconda è che l’arte rivoluzionaria invece è temporanea e quindi rivolta a un pubblico assai esiguo. La bellezza, infatti, è un’ispirazione e un’attrazione che colpisce tutti (o quasi) e in chiunque provoca una reazione che solitamente, di primo acchito, è una piacevole ammirazione; ma è anche una qualità e una virtù capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo così, per naturale traslazione, oggetto di meritata e degna contemplazione. Ed è quel che accade durante Il rito, commedia adattata dal film firmato dal grande regista svedese. La bellezza in questione è quella di Alice Arcuri, viso incantevole, corpo androgino (fasciato dagli ottimi costumi di Giuseppe Avallone) perfetto, statuario, che acquisisce rilevanza estetica man mano che la trama si sviluppa, relegandola, ahinoi, in secondo piano. La fisicità dell’Arcuri resta purtroppo l’unica attrazione contemplativa della serata. Sì, c’è anche la bella scena di Roberto Crea che fa da cornice luminosa alla Venere del Vascello, ma perfino la buona prova recitativa dello stesso Postiglione non regge il confronto.

Differente e più interessante il discorso sull’arte rivoluzionaria. Nel 1969, un anno dopo i moti sovversivi del ‘68, quando la televisione svedese mandava in onda il film di Bergman, preceduto da un video in cui lo stesso regista esortava «tutte le persone impressionabili» a preferire la lettura di un buon libro, anziché la visione del suo film, in Italia, nelle sale cinematografiche, usciva «Metti, una sera a cena» di Giuseppe Patroni Griffi: pellicola che fece epoca, seguendo e ampliando la strada già spianata del successo della commedia, che è del 1967. Anche Il rito fu pensato per il teatro, perché il palcoscenico sembrava il luogo più adatto all’uopo, ma Bergman, le cui intenzioni erano quelle di rispondere ai divieti della censura svedese che troppo spesso purgava le sue opere, ebbe l’opportunità di accordarsi con una produzione televisiva per fare arrivare direttamente nelle case dei cittadini la sua protesta personale. Il film, come l’opera adattata da Postiglione, infatti presenta un giudice che deve interrogare tre attori per valutare il grado di oscenità della loro esibizione. Questo accadeva, però, nel 1969, anno in cui in tutto il mondo occidentale erano ancora accesi i falò di una protesta giovanile che aveva lasciato più di un segno. E se le violenze sembravano ormai sedate, il panorama artistico ancora brulicava di rabbia promuovendo opere rivoluzionarie che miravano a far crollare alcune barriere, tra cui il perbenismo bigotto della borghesia che nutriva nella censura la difesa morale dei propri principi.

Già nel 1967, abbiamo detto, Patroni Griffi scrisse una commedia nella quale «il solito triangolo formato da moglie, marito e amante» veniva rappresentato alla luce del sole, con il marito, uno scrittore affermato, consenziente a un rapporto di coppia libero. Bergman ripropone il triangolo alla stessa maniera, come se fosse un’esigenza della coppia organizzarsi a vivere in tre per raggiungere un’intesa perfetta, che perfetta non sarà mai. Ma tutto questo accadeva alla fine degli anni Sessanta, sul finire di un periodo di grandi rivoluzioni sociali, quando lo scandalo diventava necessario per far crollare le colonne di certe educazioni del passato, per far piegare le cariatidi che reggevano mentalità avvizzite ma tenaci. E tanto l’opera dell’amato mio maestro quanto quella dello svedese risentono del limite dell’arte sovversiva, il cui effetto bomba dura il tempo della distruzione. Poi c’è la conservazione della memoria, la rivalutazione dell’evento epocale, ma l’interesse intellettuale che queste opere suscitarono al momento del loro exploit rivoluzionario, oggi, diventa assai languido e anche un po’ malinconico. D’altronde la censura – quel tipo di censura governato da un giudice censorio istituzionale – è argomento ormai archiviato. Per non parlare di un rapporto a tre, un’avventura diventata faticosa!

Dunque dov’è la novità che ci vuol proporre Postiglione? Perché ha sentito l’esigenza di portare in scena una commedia, in verità, nemmeno troppo affascinante dal punto di vista drammaturgico? Perché ci ha mostrato una realizzazione resa imperfetta dai microfoni, in primis; da una recitazione senza vigore dei tre amanti-attori; da didascaliche proiezioni del Giudizio Universale (un paragone eccessivamente ambizioso). Per fortuna che la bellezza, in attesa che salvi il mondo, almeno ha salvato una serata. (fn)
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Il rito, di Ingmar Bergman, traduzione Gianluca Iumiento, adattamento e regia di Alfonso Postiglione. Scena, Roberto Crea. Costumi, Giuseppe Avallone. Musiche Paolo Coletta. Luci, Luigi Della Monica. Con Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer), Alfonso Postiglione (Giudice Abrahmsson), Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann). Produzione Ente Teatro Cronaca. Teatro di Napoli. Campania Teatro Festival. Al teatro Vascello, fino al 26 gennaio

Foto: Giampiero Judica e Alice Arcuri (© Anna Abet)

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