QUANDO LA POVERTÀ CI ARRICCHIVA DI UMANITÀ
Esiste, nella scrittura di Agnese Fallongo, un autentico sentimento di gioia intima e serena, una ricerca storica assai precisa che le consente di collocare personaggi e vicende in epoche e luoghi verosimilmente realistici ma molto differenti da quelli in cui viviamo, e una forte necessità di sorridere e divertirsi che sollecita una briosa fantasia sempre condita di ironie e comicità. Letizia va alla guerra è il primo atto di una trilogia che racconta storie di un’Italia soprattutto genuina, di un tempo passato quando il linguaggio determinava palesemente origine e stato sociale. Letizia è colei che porta in scena quel sentimento di gioia intima e serena, racchiuso nel significato del suo nome e irradiato da un sorriso contagioso, che è il gusto predominante della scrittura della Fallongo.
Il testo intreccia tre episodi in cui Letizia cambia identità, epoca e luoghi, ma, nonostante le evidenti differenze, resta un’unica anima gentile pronta a dispensare amore. Amore durante la Grande guerra come moglie illibata, amore durante il secondo conflitto mondiale come prostituta, e ancora e sempre amore nell’eternità della speranza di una resurrezione. E lo suggerisce il sottotitolo: La suora, la sposa e la puttana. Laddove la suora, che chiude il trittico, in effetti è colei che riesce a chiarire i rapporti che la legano alle altre due, durante quasi mezzo secolo del Novecento. Non manca, infatti, nelle tre figure femminili un riferimento alla beatitudine spirituale che unisce le donne in un viaggio sentimentale ed emotivo, oltre che eseguito per necessità di contingenze: una da Monreale fino al fronte del Carso, l’altra da Littoria al bordello della Sora Gemma in via Mario de’ Fiori a Roma, e l’ultima da Monselice all’orfanotrofio di Latina.
La narrazione è diretta al pubblico ed è giostrata con ottimo equilibrio tra dialoghi, canzoni e cronaca. In scena ci sono Agnese Fallongo e Tiziano Caputo, bravissimi, che interpretano, oltre ai personaggi principali (cinque), una miriade di partecipanti che intervengono con battute e schiamazzi, utilizzando un ventaglio di dialetti e cadenze (tanto meridionali, quanto settentrionali), tutti eseguiti con impeccabile dizione e chiarezza. A ciascuno viene data una precisa identità tramite un linguaggio che non sempre dispone di parole esplicative ma anche soltanto di sonorità evocative. La scena, ideata per dislocare le differenti storie dal sud al nord della Penisola, è composta da tre grandi cornici dove i personaggi entrano ed escono, in un senso e nell’altro, cambiando registro di recitazione: in effetti si sta illustrando il lavoro della regia di Adriano Evangelisti, il quale spinge il gioco teatrale fino a rappresentarne l’essenza: ogni cornice è un palcoscenico, è un sipario aperto dal quale nascono personaggi spesso richiamati dal suono della chitarra di Caputo che con musica e canto introduce, accompagna e talvolta accarezza i momenti più suggestivi.
Foto: Tiziano Caputo e Agnese Fallongo (© Tommaso Le Pera)