GODOT È ARRIVATO, MA STA PEGGIO DE TUTTI!
Che l’autentico protagonista della grande tragedia minimalista e surreale descritta da Spiro Scimone, sia un sacco di plastica, non ci vuole molto a capirlo: giusto il tempo di vedere uscir da lì un secchio con l’acqua, primo elemento vitale, benché giallastro, e l’indicazione è già chiara. Se poi all’interno si troverà anche qualche tozzo di pane ammuffito, la previsione diventa certezza. Le voci e le piccole azioni che ruotano intorno all’involucro diventano il contorno utile a rendere più poetico il dramma dell’assurdo che si nasconde in quel sacco di rifiuti, che stenta a riempirsi di altri argomenti se non quelli miseri ed essenziali (appunto, acqua e pane), ma che pure soddisfano le esigenze di Peppe, Tano e Uno che vivono in un piccolo cortile, dove vengono ammassate le immondizie di un agglomerato cittadino, uno come tanti, abitato perlopiù dal degrado e dall’angoscia.
Se l’effimero di una tragedia umana riesce ad essere tanto limpido e vulcanico (da scatenare al finale sentimenti dirompenti), lo si deve prima di tutto alla regia di Valerio Binasco che tratta Il cortile con particolare delicatezza (soprattutto nel misurare i movimenti dei tre personaggi), ma con la determinazione di valorizzare il concetto di assurdità dell’esistenza, lo stesso che fu tipico del teatro di Beckett. In scena, seduto su una cassetta, c’è Peppe che è una sorta di menestrello dell’infelicità: comincia a narrare la disperazione con il «primo piano» di un calzino che annuncia la storia di un topo che mangia un piede. Poi, risalendo verso l’alto, ricorda di aver avuto belle gambe e ne fa un’esaltazione stupefacente; reitera la felicità del passato raccontando dei premi vinti grazie alla perfezione delle sue labbra. Competizioni di bellezza à côté de la monnezza: è il loro divertimento (e anche quello del pubblico), il loro gioco che li tiene aggiornati al nulla della vita, rappresentato dal sacco forse vuoto di concretezze, ma certamente colmo di inconsistenze esistenziali. La recitazione è sempre ironica. Assurdi anche i toni idilliaci che fanno di Peppe, Tano e Uno (ma soprattutto Peppe, interpretato da uno straordinario Francesco Sframeli) poeti in decomposizione, divorati dall’ineluttabile degrado; lo stesso che ogni giorno fagocita le nostre vite (anche se facciamo finta di niente).
Il rapporto con il teatro di Beckett facilita la visione di un riflesso con i nostri tempi: l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la sua crisi al cospetto del mondo, l’angoscia come cibo quotidiano, la solitudine come rifugio. Gli spettatori osservano soltanto un cortile vissuto da tre relitti del progresso, ma in realtà abitato da tutti i nostri fallimenti umani, morali e civili. L’autore, in scena, sceglie con dovizia il ruolo di Tano, responsabile del sacco, guardiano della bocca di un contenitore dell’esistenza sua e degli altri: controlla continuamente all’interno con la speranza che l’arrivo di una novità possa mutare la loro infelicità, ma Godot (il terzo personaggio, Uno, Gianluca Cesale) giunge all’improvviso alle sue spalle (in effetti è sempre stato lì con loro ma nessuno se n’è accorto), si mostra con apparizioni fugaci che sembrano intermezzi della disperazione, comparse affatto rassicuranti, anzi, Uno/Godot sta messo proprio male, sta peggio de tutti! Si capisce che anche la sua voce è agli sgoccioli, mentre a Peppe, almeno una voce, gli è stata lasciata.
Foto: Francesco Sframeli, Spiro Scimone e le gambe di Gianluca Cesale (© ???)