LA FIERA DEI RUMORI A PALAZZO JEKYLL
Sergio Rubini, di cui ho grande stima, scrive nelle note di regia: «Partendo dalla considerazione che il celebre romanzo di R. L. Stevenson Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde sia un’apologia sulla condizione umana avendo come tema centrale il doppio, che poi è il doppio che alberga in ognuno noi, abbiamo sviluppato una drammaturgia che avesse una chiave più chiaramente psicanalitica … etc etc…». La riduzione teatrale vista al Quirino ha esattamente questo andamento: una costruzione scenica e registica attenta, meticolosa, e in teoria anche coerente, ma concretizzata in una realizzazione senza alcuna emozione. Non c’è pathos, non c’è coinvolgimento, non c’è un’anima teatrale. C’è un racconto che man mano che progredisce si allontana dalla platea. Resta la narrazione di una storia, di cui vediamo alcune scene dialogate, un po’ ripetitive, ma senza suspense.
Il lato intellettuale prevale eccessivamente su quello teatrale. La lettura entra nella recitazione, spezzandola di continuo: così diventa impossibile far crescere il livello emotivo. La psicanalisi nel testo certamente c’è, ma è materia che dovrebbe fiorire impalpabile dalle azioni dei personaggi e dalle situazioni che essi creano (vedi Pirandello); invece, leggendo le note di regia, si intuisce meglio che l’inconscio sia il presupposto, ossia, il punto di partenza di una drammaturgia che non decolla mai, ma va avanti a saltelli sempre dalla parte del maligno. Il Dr. Jekyll resta Hyde pure quando parla da Jekyll: forse anche per colpa di una parrucca più diabolica che benevola.
A proposito di doppio: per uno strano caso di involontarie coincidenze, mi verrebbe di paragonare l’allestimento di Rubini all’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler. L’accostamento è molto impervio, un vero azzardo, eppure se la truppa delle maschere goldoniane agiva su una pedana circondata da attori e tecnici rumoristi che esibivano davanti al pubblico l’esecuzione degli effetti sonori con una strumentazione artigianale, impensabile, talvolta rustica, svelando i trucchi della rumoristica teatrale e desueti utensili, nella tetra e ossessiva scenografia di Lucia Imperato, sotto alla finestra dove di tanto in tanto si vede l’ombra silenziosa di una figura femminile, nu spurtiello quadrato s’arapette, / e comm’ ‘a guardaporta s’affaciaje un signore che con la storia de Il caso Jekyll non c’entra nulla. Il signore in questione, infatti, non è, come potrebbe sembrare, il portinaio della casa del Dr. Jekyll, ma il rumorista Alessio Foglia. È lui, poiché a vista, che diventa l’autentico protagonista dello spettacolo.
Le scene cambiano in continuazione. Quasi tutti gli attori sono impegnati in più ruoli (per fortuna c’è una locandina che riporta personaggi e interpreti). Le luci sempre molto basse e una costante nebbia (londinese chiaramente) favoriscono un’atmosfera fuligginosa, opaca, torva, che accompagna il racconto da ascoltare attentamente dalla voce nasale di Rubini, a cui si alternano scene con i personaggi che talvolta seguono ritmi incessanti dovendo spostarsi, sempre di notte e in gran fretta, da una parte all’altra di Londra: tutti con il microfono che spara a un volume quasi insopportabile voci, fiati e affanni. Nelle prime file, un delirio. Sì, perché – a dire il vero – le parole devono sovrastare l’operato persistente del rumorista. Mentre la narrazione descrive la lotta tra cani e gatto si sente abbaiare con rabbia e miagolare disperatamente; se ci si ragguaglia sull’orario parte il suono della campana; si parla del cavallo e si sente il nitrito prima dello scalpitare degli zoccoli, poi il ticchettio assillante dell’orologio, il cuore che pulsa ansioso, trilli e campanelli che spezzano le scene. E ancora uccelli, uccellacci e uccellini, passi, pendole e gargarismi, fruscii di vesti, legna che arde, aliti di fiamme, pioggia, vento e finestre che sbattono. Violenti colpi di accetta e pugni che bussano minacciosi. Echi sinistri e applausi festosi. Ed infine le porte: non c’è anta o uscio che non s’apra senza cigolare e non si chiuda senza il tonfo inquietante. Pura didascalia, che diventa la fiera dell’ovvietà.
Oltretutto l’attività di Alessio Foglia, all’interno del suo sportello quadrato, con tendina rigida che all’occorrenza sale e scende (insisto: sembra la portineria di Palazzo Jekyll a Spaccanapoli), è tanto incessante, quanto poco godibile (non come quella ideata da Strehler), nascosta e soprattutto computerizzata. Allora mi chiedo: che bisogno c’è di posizionare sulla scena il maestro del sonoro se la sua arte è racchiusa perlopiù in una consolle elettronica? Dov’è la spettacolarizzazione del rumorista?
Foto: Geno Diana e Sergio Rubini (© Flavia Tartaglia)