12 marzo 2024

L’esilarante arte del divenire

Arlecchino e Eleonora Duse

L’AUDACIA DI ROMEO, L’ASTUZIA DI GIULIETTA

Una carrellata di aneddoti teatrali antichi e moderni: letti, ascoltati, vissuti

Prologo

Quando, un paio di secoli fa, la Commedia dell’arte trionfava ancora su tutti i palcoscenici di un’Europa che aveva ancora molto spiccato il senso del divertimento, avvenne, durante una rappresentazione, che l’Arlecchino, dopo aver preso un diluvio di legnate, cadde perdendo i sensi. Il pubblico non si accorse di nulla e nemmeno ci fece caso colui che mosse il bastone, fuggito subito in quinta per esigenze di copione. Sul fondo della scena, quindi, apparve, preoccupata per il frastuono, Colombina, la quale vedendo il compagno immobile, disteso faccia a terra, cominciò da personaggio a gemere, ma da attrice corse a rianimarlo. Si gettò sul corpo di Arlecchino. Lo scosse. Fece il gesto di strapparsi i capelli, ma il buon servitore proprio non dava segni di vita. Allora, prima di gridare aiuto e interrompere la commedia, come ultimo tentativo, pigiò con energica pressione e con entrambe le mani sul dorso del collega: una, due, tre volte. Si chinò per soffiare sul viso riverso dell’attore, ancora con la maschera sul volto, ma venne richiamata da un diverso soffio, piuttosto rumoroso, che sortì da altro pertugio del corpo di Arlecchino. Colombina finalmente sospirò rinfrancata: «Cielo, ti ringrazio, respira ancora».

È uno dei più famosi e antichi aneddoti teatrali tramandati prima a voce e raccolti successivamente da Oreste Trebbi in un volume, ormai raro, edito da Formaggini nel 1929. La storia del teatro non è soltanto quella erudita che ci ha lasciato l’esimio Silvio D’Amico, e non è nemmeno quella critica relativa alle rappresentazioni di una commedia o di un dramma. Non dimentichiamo che il teatro è arte viva, e come tale, è in continuo divenire. Quando si allestisce un’opera teatrale ne comincia subito un’altra parallela, determinata dalle recite quotidiane. Sappiamo bene che il sipario si apre tutte le sere sulla messinscena di un testo, ma lo spettatore, che si gode lo spettacolo una sola volta non saprà mai se ha assistito alla recita perfetta – così come ideata dal capocomico (l’antico metteur en scène) o dal regista – senza intoppi di sorte, senza capricci degli interpreti e senza incidenti come quello appena descritto.

Nell’ambiente gli aneddoti si tramandano di ruolo in ruolo sin dalla Commedia dell’arte: l’Arlecchino vecchio racconta a quello giovane; il Pantalone anziano a quello da istruire, e via di seguito.

Prima scena

Uno dei più grandi attori del pieno Ottocento fu Giuseppe De Marini, il quale, secondo l’usanza del tempo, recitava in una compagnia in cui il dramma si alternava alla commedia. Solo al De Marini, primo attore, era concesso partecipare esclusivamente alle tragedie, perché, era risaputo, non aveva alcuna dimestichezza con le parti a soggetto. Una sera in cui sarebbe dovuta andare in scena la commedia, accadde che il Florindo si ammalò e l’Arlecchino, facendosi coraggio, pregò il De Marini di sostituirlo. A malincuore il primo attore accettò, ribadendo però il suo disagio per l’assenza di battute scritte. «C’è il suggeritore», lo consolò Arlecchino. «Ma io non conosco nemmeno la trama», ribatté l’altro. «Niente paura – sostenne la maschera – l’argomento è semplice: Rosaura, figlia di Pantalone, ama Florindo, ma Pantalone vuol darla in sposa a Lelio. Lei, signor De Marini, sarà di prima scena proprio con me. Ci sarò io a sostenerla. È sufficiente all’inizio che lei si mostri al pubblico disperato, addolorandosi per il rifiuto di Pantalone e per il timore di perdere per sempre la sua amata Rosaura. Poi provvederò io a confortarla e a condurre a buon fine ogni cosa. Si affidi a me».

Il pubblico già affollava la platea quando un attore annunciò che la parte di Florindo quella sera veniva interpretata niente meno che dal celebre Giuseppe De Marini. All’aprirsi della tela il fedele servitore si avvicina al suo padrone (il De Marini, appunto), il quale dandogli un’affettuosa pacca sulla spalla dice soddisfatto: «Arlecchino caro, io sono l’uomo più felice di questa terra. Il signor Pantalone mi ha concesso in isposa la sua figliola, la mia amata Rosaura». L’altro, restando interdetto, e voltandosi al pubblico chiosa, rimanendo perfettamente in parte: «Siori, non ocor altro. I pol andar a casa: la comedia la xe finida».

Ecco evidente un chiaro esempio di capriccio attoriale, ma l’episodio successivo dimostra che l’aneddotica teatrale è soprattutto vittima del caso.

Vittorio Caprioli

Seconda scena

In epoca più recente, durante una replica del pirandelliano Ciascuno a suo modo, Vittorio Caprioli e Mariano Rigillo, interpreti rispettivamente di Francesco Savio e Diego Cinci, diedero vita a un irresistibile duetto fuori programma. Infatti, i due personaggi, pur trovandosi finalmente d’accordo sulla necessità di dover prendere le difese di Delia Morello, vittima e artefice di una vicenda sentimentale che stava per degenerare in una serie di duelli d’onore tra uomini d’altri tempi, dovevano chiarirsi ancora su un punto. Caprioli-Savio avrebbe dovuto ripetere: «Ma resta che [sottinteso, la Morello] con Rocca intanto fu veramente perfida». E, di rimando, Rigillo-Cinci, interrompendolo bruscamente: «Fu donna! Lascia andare! …». Quella sera, però, lo scambio serrato delle battute non diede il tempo a Rigillo di far caso a una piccola omissione del collega che inavvertitamente dimenticò una preposizione importante, «con». Per cui il soggetto della frase pronunciata da Caprioli mutò completamente: non più Delia, ma proprio il temerario suo rivale con cui avrebbe dovuto battersi. «Ma resta che Rocca intanto fu perfida», disse Caprioli, e già il genere femminile dell’aggettivo gettò sospetti sul Rocca, ma la conferma arrivò perentoria dall’altro: «Fu donna». Probabilmente se avesse proseguito la battuta, come da prassi, nessuno si sarebbe accorto di nulla, ma Rigillo in quell’istante realizzò la gaffe e si bloccò, offrendo il tempo a Caprioli di soffermarsi anch’esso sull’errore e di rubargli la battuta di rincalzo: «Lascia andare!». Come a dire: prosegui pure che ormai il pastrocchio è fatto!

Ancora Vittorio Caprioli raccontava di quando era impresario di se stesso e rimaneva a controllare lo sbigliettamento al botteghino fino a pochi minuti prima di andare in scena. Quella sera la piantina mostrava il tutto esaurito, e alcuni avventori, pronti a pagare, furono rimandati a casa. L’attore ebbe anche una animosa discussione con il gestore del teatro che aveva rinunciato ad aggiungere altre sedie (una volta si faceva!). Pazienza, bisognava cominciare e ogni battibecco fu messo da parte. Per fortuna, però, il protagonista non era di prima scena ed ebbe il tempo di calmarsi. Infatti, appena giunse il suo momento per l’ingresso, l’applauso di sortita gli fece volgere lo sguardo sorridente alla platea, ma il buonumore si raggelò all’istante perché due poltrone in seconda fila erano vuote. Il sangue gli andò alla testa e rimase immobile più del dovuto. Dalla quinta gli arrivò l’imbeccata, e lui: «No, non la battuta, l’argomento!»

Terza scena

Mario Ferrero, amatissimo amico, durante una serata piena di risate e ricordi raccontò (o forse tramandò, come impone il rito classico) alcuni aneddoti divertentissimi. Tra i quali questo che segue.

Alamanno Morelli, nonno di Rina (amica del nostro dispensatore di care memorie), raccontava che, durante una rappresentazione dell’Otello, interpretato dal mitico Ermete Zacconi, un attore più giovane, dovendo sostituire all’improvviso un collega malato, non sapendo la parte a memoria, andò spavaldamente in scena sostenuto dal suggeritore. Dopo la morte di Desdemona, affacciandosi alla ribalta, rimase in attesa dell’imbeccata, ma a causa del testo tradotto in un impossibile linguaggio arcaico, come si usava nell’Ottocento, l’attore si rifiutò di ripetere a voce alta una frase che per lui non aveva alcun senso. Il suggeritore, quindi, incalzò: «… ma per mera lascivia». L’attore, annaspando con gli occhi in cerca di aiuto, continuò a rimanere muto, convinto che la battuta udita non poteva essere quella scritta da Shakespeare. Dalla buca, la voce dell’imperterrito assistente ripeté: «… ma per mera lascivia». La pausa era diventata un silenzio, assumendo un tempo eccessivo, per cui dalle quinte giunse anche un severo gargarismo del capocomico che invitava l’altro a proseguire. Forzando il suo istinto, il sostituto decise di dire ciò che aveva capito, e allargando le braccia, come a giustificare la palese assurdità che stava per pronunciare, finalmente confessò: «Ma per me era la scimmia».

Elsa Albani e Romolo Valli

Quarta scena

La professionalità e la rigida educazione teatrale diedero a Elsa Albani – indimenticabile co-protagonista della celebre compagnia detta dei Giovani – fama di essere irreprensibile tanto da indurre scherzosamente qualcuno a soprannominarla «il carro-armato». Romolo Valli, nei Sei personaggi in cerca d’autore, indicandola, austera e possente, invece di pronunciare la battuta come scritta da Pirandello «Non è una donna, signore, ma una madre», giocando abilmente sull’assonanza di quest’ultima parola per ingannare il pubblico, talvolta mostrava, al Capocomico, l’altera postura della collega dicendo: «Non è una donna, signore, ma un armadio». La sincerità dei rapporti e la stima di quel gruppo erano talmente solide che mai furono scalfite da questi giocosi sfottò.

Qualche anno prima accadde un episodio rimasto indelebile nel sestetto dei giovani. L’ingresso in scena di Annamaria Guarnieri era seguito da quello dell’Albani. Le due avrebbero dovuto scendere insieme, con lunghi abiti, una scalinata prima di raggiungere la ribalta, accompagnate dal suono straziante di un violino fuori scena. La Guarnieri, però, al terzo gradino, inciampò nella piega del vestito rovinando a terra e coprendo col frastuono della caduta anche la musica. Ma fedele ai suoi principi, Elsa Albani, incurante del ruzzolone dell’amica, ripeté algida: «Senti come suona, cara!». Valli in quinta decretò: «Trattasi irrimediabilmente di un panzer!»

Quinta scena

Al tempo in cui i baci avevano un valore più compromettente di quello odierno, anche gli approcci galanti di un Romeo testardo, respinto ripetutamente proprio dalla sua Giulietta, furono causa di esilaranti conseguenze. L’attor giovane aveva ideato come poter sfruttare le esigenze di copione per sferrare l’ennesimo attacco alla bella e ostinata collega. Suppose che nell’oscurità della tomba dei Capuleti, Giulietta distesa sul feretro, al finale della tragedia, siccome addormentata dal potente sonnifero, non avrebbe potuto ribellarsi alle sue avances. Confidò a un amico l’infallibile piano: avvicinandosi al corpo dell’amata l’avrebbe finalmente baciata con passione. L’amico senz’altro perse una buona occasione per tenere per sé la confidenza e la voce arrivò in un baleno all’astuta Giulietta, la quale, un attimo prima di essere portata in scena sul catafalco, strinse tra le labbra uno spillo con la punta rivolta verso l’alto. Nella penombra, l’audace Romeo, scorgendo l’amata distesa inerme e nell’impossibilità scenica di poter reagire, spavaldo si fiondò con la bocca su quella dell’amata – ahi, ahi, l’incauto! – andandosi a infilzare con le labbra sullo spillo. Non potendo più spiccicare parola Romeo prese il pugnale e si uccise prima del tempo esibendosi in strazianti sussulti di dolore, autentici quanto basta. L’indomani un critico solerte magnificò la travolgente drammaticità di quel gesto repentino e inaspettato!

Non fu soltanto la prosa ad arricchire l’aneddotica teatrale.

Sesta scena

Un’orchestra parigina giunse nel 1914 in una città britannica per eseguire, tra le altre composizioni, il Preludio della Leonore di Beethoven in cui, di tanto in tanto, s’ode il suono distante di una tromba. Accadde però qualcosa che impedì al direttore di fare le prove e costui incaricò l’orchestrale di cercarsi un luogo adatto a far udire il suono del suo ottone in lontananza. Il maestro, rendendosi conto che il teatro non consentiva altre scelte, aprì una porticina sul retro del palco scoprendo un piccolo cortile idoneo all’uopo: quindi, premunendosi di sciarpa e cappotto, attese il suo momento e, un attimo prima, uscì all’esterno, suonò e rientrò in teatro per non raffreddarsi e per seguire meglio l’andamento dell’esecuzione. Al secondo intervento però gli squilli di tromba, dopo il primo, s’interruppero all’improvviso. Il direttore andò su tutte le furie e, finito il pezzo, corse alla ricerca dell’inadempiente suonatore. Trasecolò vedendolo dibattersi fra due severi poliziotti che non credevano a una parola di quel che il poverino dicesse loro. E quando videro sulla porta del teatro il direttore d’orchestra ancora in frac si vantarono con lui per aver arrestato quello strano individuo che voleva disturbare con la tromba l’esecuzione del concerto.

Memo Benassi ed Eduardo De Filippo

Settima scena

Alcuni episodi sono determinati anche dall’astuzia dei tecnici. Non tutti gli spettatori si soffermano sulle loro fatiche. Al finale dell’opera, spesso, il lavoro del personale in quinta prosegue più a lungo di quello degli attori. Ciò accadeva soprattutto quando, a chiusura di sipario, bisognava smontare la scena per partire immediatamente e rimontarla la mattina successiva in un teatro di un’altra città.

Trovandosi proprio in queste condizioni e dovendo affrontare in nottata un lungo viaggio, un direttore di scena, sapendo bene a memoria battute e movimenti degli artisti, ebbe una folgorante idea. Era da copione che, poco prima del finale, un forte tuono facesse tremare i vetri di una finestra, sulla quale era fissata una pesante tenda sostenuta da un bastone. Per smontare quell’arredo occorrevano almeno cinque minuti e il lavoro di tre persone. Fece un calcolo elementare, tre per cinque, uguale quindici. Ossia, un quarto d’ora per metter via una tenda: un tempo infinito quando si hanno i secondi contati. Quindi, nel pomeriggio, facendosi aiutare da un collega, in tutta tranquillità, salì sulla scala, smontò le staffe che reggevano l’asta, legandola con una cordicella infilata tra le fessure della parete di legno, e assicurò la fune ai ganci fuori scena. Forse, del suo esperimento, avrebbe dovuto informarne gli attori, ma per godersi l’effetto sorpresa non disse nulla. La protagonista della commedia, una donna dal fisico ancora molto attraente, terminava l’atto in un letto perché gravemente ammalata. Sotto le lenzuola – lo sapevano tutti – soleva sbottonare la parte bassa della camicia da notte per riuscire a muovere più liberamente le gambe. Quando pronunciò la parola che dava il segnale per far partire il tuono registrato, oltre al fracasso e al consueto tremito dei vetri (anch’esso registrato), il direttore di scena sganciò la corda, cosicché tenda e bastone crollarono in terra. Tutto sembrava essere andato secondo le intenzioni, ma il giovanotto non aveva tenuto conto dello spavento che avrebbe provocato nella donna sotto le coltri, la quale, saltando dal letto con la veste aperta e svolazzante sul davanti, mostrò agli spettatori quel che mai si sarebbero aspettati. Naturalmente, a quel punto, il crollo fu giustificato come un improvviso incidente dovuto a uno sfortunatissimo caso.

Gran finale

Se ne raccontano anche di più licenziosi che riportiamo solo perché i protagonisti furono indiscutibili artisti dall’eccelso calibro.

Fino all’ultimo Dopoguerra, gli attori avevano ancora la consuetudine di cambiare rappresentazione ogni sera, saltando dalla commedia alla tragedia. Le loro tournée prevedevano un repertorio e bisognava essere sempre pronti a ogni possibilità, anche improvvisa, cosicché le prove di lettura erano molto condensate. Sarah Ferrati, grande attrice e ormai già famosa, ancora poco abituata ai nuovi metodi di lavoro dei giovani registi che sul finire degli anni Quaranta rivoluzionarono il teatro, durante l’ennesima lettura a tavolino dello stesso testo, un po’ annoiata, chiese a Orazio Costa Giovangigli quando sarebbero andati «in piedi» per l’allestimento in palcoscenico. Costa, con estrema educazione e rispetto per la prima donna della sua compagnia, rispose: «Signora Ferrati, le battute bisogna metterle bene prima in bocca e poi nei piedi». E lei, inaspettatamente laconica: «E quando ce le mettiamo nel culo?»

Una giovane attrice, assoldata nella compagnia di Eduardo, al debutto nel ruolo di cameriera, avrebbe dovuto affacciarsi dalla quinta e dire in napoletano «Stanno venneno ‘e piscature», ma durante le prove Eduardo non fu contento dell’effetto e mutò la battuta in italiano e con un tempo meno dinamico per dare l’opportunità alla ragazza, molto agitata, di respirare adeguatamente. La nuova versione era stata ben concordata: dopo l’ingresso in scena, un respiro e poi: «Stanno arrivando i pescatori». Ma la tensione giocò un brutto scherzo alla debuttante, la quale tra un misto di napoletano e italiano, pronunciò tremante: «Stanno arrivando i pisciatori». Eduardo prontissimo: «Bene, che entrino e che piscino!»

Fa parte ormai della storia dei più famosi e irreversibili lapsus: accadde nientemeno che a Eleonora Duse, già travolta dalla passione per D’Annunzio. La battuta da pronunciare era semplice e l’attrice indiscutibile: «Datemi il mazzo di carte», citava il copione; ma in preda a un giramento di testa (così si disse), la divina Duse pronunciò la frase invertendo malauguratamente due lettere, e scambiando la M con la C, dichiarando così la sua appassionata devozione per il membro di Marte!

Esodo... e poi tutti a cena

Nella tradizione classica esistono due tipi di attori: quelli che seguono i principi di Diderot e quelli legati al metodo Stanislavskij. I diderottiani sono coloro che, stando in scena, riescono a seguire perfettamente anche quel che succede in quinta. Vittorio Caprioli, ogni domenica pomeriggio, esigeva che qualcuno gli segnalasse l’evolversi in diretta delle partite del Napoli di Maradona, riuscendo anche a esultare senza darlo a vedere; Romolo Valli, nel Così è (se vi pare), dovendo stare sempre in scena, ma spesso senza proferir parola, pianificava addirittura gli appuntamenti del giorno successivo con il fedele assistente nascosto fuori scena. Sembra incredibile ma, si dice, che una volta, durante il secondo atto, terminò un’intervista, cominciata nei camerini. Queste distrazioni, tuttavia, non impedirono mai a Laudisi di rientrare puntuale in battuta. Gli adepti di Stanislavskij, invece, hanno bisogno di molta concentrazione per riuscire ad assorbire le caratteristiche del personaggio da interpretare per poterle sprigionare durante la rappresentazione. Un noto affabulatore – si racconta – dovendo affrontare il ruolo di Re Lear, astutamente, si faceva possedere dall’anima del sire molto più del necessario, cosicché anche dopo la recita, al ristorante, non ancora liberatosi completamente del ruolo di sovrano, evitava di osservare quel gesto plebeo che mai alcun re si abbassò a compiere: mettere mano al portafoglio!

Sui critici

Molti anni fa, un noto critico invitò Memo Benassi a scrivere un ricordo su Eleonora Duse. «Ma gli attori devono stare in palcoscenico – replicò l’attore – non alla scrivania. Ci compatite già abbastanza per quel che sappiamo fare, figuriamoci cosa sarete capaci di dirci se cominciamo a scrivere noi». Alle insistenze del giornalista, Benassi fu irremovibile: «Io racconterò, ma scriverà lei, altrimenti chi mai potrà compatirla!» (fn)





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