SETTE STATUETTE PER «OPPENHEIMER» DEDICATE ALLA PACE NEL MONDO
Vincono anche le pellicole straniere di Glazer (due premi) e di Justine Triet per la sceneggiatura
Alle 3.20 del mattino (ora italiana) Oppenheimer porta a casa la settima statuetta. La più importante. Ma già da più di un’ora la scelta del vincitore era ormai chiara. Dopo un iniziale exploit a vantaggio del film di Yorgos Lanthimos che ha conquistato di seguito le premiazioni del trucco, della scenografia e dei costumi, Povere creature! ha dovuto cedere il passo alla sontuosa opera di Chris Nolan sulla bomba atomica. E, com’era prevedibile, bomba è stata: film, regia, attori (protagonista e non protagonista), fotografia, montaggio e colonna sonora. Sette squilli su tredici nomination. In dirittura d’arrivo Emma Stone, pur senza voce, è riuscita ad afferrare la quarta statuetta per il personaggio di Bella, donna bambina della favola del regista greco. Secondo Oscar personale, dopo La La Land del 2017.
In realtà tutto è andato secondo le previsioni. Anche la dedica alla pace nel mondo era scontata. Nessuna particolare sorpresa ha caratterizzato la notte degli Oscar. Anzi, sì, la vera novità è stata determinata dai tempi serrati della cerimonia. Una volta bisognava aspettare l’alba prima della conclusione della festa; stanotte tutto è stato molto più sbrigativo. La seconda sorpresa è stata l’improvvisa apparizione, sul palco del Dolby Theatre, dove s’è svolta la 96ª edizione degli Academy Awards, di Al Pacino, il quale, mentalmente distante dall’impellente messaggio che stava annunciando, ha pronunciato il nome del vincitore quasi con sufficienza, come se avesse sbagliato l’intonazione della battuta conclusiva, o come se, leggendo quel titolo, avesse accusato un duro colpo. Ma questo, per uno come lui, senza smoking e senza cravattino, gli fa onore.
Anche l’altro grande, grandissimo, meraviglioso, Robert De Niro che – secondo la mia pacata opinione – avrebbe strameritato il titolo di miglior attore non protagonista per The killers of the flower moon è rimasto seduto in poltrona senza essere mai scalfito né dalle emozioni né dalle finzioni esagerate dell’intero parterre. Finte le standing ovation, ormai diventate una squallida consuetudine. Finte le lacrime di gioia. Stucchevoli i siparietti pregni di battutine insensate. Patetici i saluti alle mamme, noiose le confidenze d’amore. Ridicole le difficoltà di lavorazione a causa dei pargoli: «Io e mia moglie registravamo la canzone quando i bambini andavano a dormire», ha detto Ludwig Göransson che vittorioso nella categoria della Miglior colonna sonora. Ma inventati una frase meno casalinga, manco avessi vinto per la migliore lasagna della nonna! Ma dov’è finita l’inarrivabile magnificenza delle star del cinema! Cary Grant, Gary Cooper, Greta Garbo…
E finta, in studio, a Roma, anche la delusione per la mancata opportunità italiana. Matteo Garrone e il fido Ceccherini restano a mani vuote: la nave di Io capitano è rimasta lontana dal porto. Non certo per l’ultima gaffe televisiva, ché detta da Ceccherini si può considerare soltanto come la conseguenza di una brutta figura! La zona d’interesse è un film di tutt’altro spessore. Oltre alla statuetta per la migliore pellicola internazionale, Tam Willers e Johnnie Burn, autori del sonoro, vincente, hanno ringraziato «l’Academy per aver ascoltato il loro film»: anche questa dichiarazione potrebbe essere facilmente interpretata come una gaffe per una giuria specializzata. Comunque, parlando di Io capitano, Alberto Matano e i suoi sei ospiti, da Roma, hanno insistito sul fatto che «erano dieci anni che una pellicola nostra non arrivasse alla cinquina finale», dimenticando, tutti, la candidatura di È stata la mano di Dio che partecipò alla premiazione del 2022. Comunque, è certamente più elegante sorvolare sulle banalità che si son dette da Roma.
A proposito di stranieri: tra tanta spudorata finzione a stelle e strisce, va sottolineata, invece, l’autentica drammatica dichiarazione di Mstyslav Cernov, autore del documentario premiato, dal titolo Venti giorni a Mariupol, che descrive l’inizio dell’invasione russa in Ucraina con le immagini dell’assedio e la distruzione della città: «Sono felice, ma in verità non avrei mai voluto girare questo filmato che mi è costato troppo dolore». Più che comprensibile.
L’Oscar – tra quelli non assegnati – dell’eleganza e della misura va a Ben Kingsley che ha premiato il miglior attore: Cillian Murphy, giovane Oppenheimer dagli occhi azzurrissimi che ha accettato di girare il film prima ancora di leggere la sceneggiatura: «Un atto di coraggio e di fiducia», ha detto l’anziano Ghandi. Tra le donne, quest’anno s’è fatto a gara a chi indossasse l’abito più imbarazzante, si son visti tanti sbuffi e molti palloncini gonfiati: sulle spalle, sulle braccia, sui fianchi. La sartoria femminile non ha fatto un buon lavoro! Forse la meglio vestita era Sandra Huller, non americana.
La parentesi riservata in memoriam di chi non c’è più è stata bruciata da una regia che invece d’inquadrare il filmato, ha indugiato a lungo sulla platea e sull’orchestra sul palco, riservando le immagini essenziali soltanto a chi era seduto in sala. Non si è capito il perché.
Nessun premio al film di Scorsese, peccato! Leonardo Di Caprio non s’è visto nemmeno tra il pubblico. A mani asciutte anche il Maestro di Bradley Cooper (lui, sì, che alla fine ci è rimasto male), ma – si commentava in studio – «i vincitori vengono scelti anche in base alla fruibilità del prodotto commerciale», e Leonard Bernstein al botteghino sembra non aver avuto mai buone chance. Un solo Oscar per The holdovers alla non protagonista (dispiace per la bella prova di Paul Giamatti), Da’vine Joy Randolph, che tra le lacrime ha inaugurato una serata davvero interessante soltanto per le due premiazioni alle sceneggiature.
I VINCITORI