Cristina Barbagallo e Arianna Toso |
LA VIOLENZA ALLE DONNE IN SETTE CAPITOLI, MA SENZA SPIRITO CRITICO
Peccato, cara Elisabetta! Lettera a una giovane spettatrice
Peccato che un argomento così delicato e importante sia stato proposto in maniera tanto didascalica. Peccato che un tema così attuale sia stato affrontato seguendo il cliché della vittima e lo stereotipo del carnefice. Peccato che sia stato scritto come l’elenco dell’indice di un reportage giornalistico sulla violenza alle donne. Peccato che ci si sia soffermati sulla crudeltà della sterile cronaca senza mai tentare d’indagare sui motivi che determinano queste assurde atrocità. Peccato che entrando in platea e guardando il palcoscenico ancora vuoto, con le sedute (sedie, sgabelli, poltrona), tutte rivolte verso il pubblico, si ha l’impressione di dover assistere a una conferenza e non a uno spettacolo teatrale. E peccato che la conferenza sia poi proseguita con numeri e percentuali, con statistiche e conteggi che di teatrale non hanno assolutamente nulla. Peccato, sì!
Peccato davvero, cara Elisabetta, perché l’argomento avrebbe meritato maggiori attenzioni nella scrittura, nella regia e soprattutto nell’equilibrio delle emozioni. Per la sua idea, Giuseppe Oppedisano, autore e regista di Finché morte non ci separi?, ha scelto banalmente la direzione dell’ossessiva ripetizione: sette capitoli che raccontano sette differenti storie di violenza. Sette massacri, psicologici, fisici, etnici, cibernetici… Tuttavia la diversità delle varie situazioni, dopo il terzo quadro, diventa effimera perché reiterata con insistenza. I particolari passano in secondo piano, mentre l’abuso, lo stupro, il codice vessatorio prende il sopravvento sull’animo dello spettatore che non distingue più di quale orrore si stia parlando. L’orrore è orrore e le differenze non si scorgono più, perché anche il senso dell’emozione ha bisogno di tregua per riprendere fiato e ricominciare a palpitare.
In criminologia, infatti, il serial killer è definito come colui che «commette più omicidi, intervallati da un periodo di tempo, connotato da una fase di raffreddamento emozionale». Perfino l’assassino seriale, quindi, ha bisogno di pause tra un delitto e l’altro; Oppedisano invece non dà tregua, non lascia il tempo allo spettatore di ritrovare l’equilibrio emotivo per affrontare il successivo trauma. Il risultato è che le sette storie, sparate una dopo l’altra, senza un attimo di quiete, annullano il loro effetto comunicativo. Anzi, producono un tale senso di nausea da ottenere un esito contrario. È vero, Elisabetta? Siamo pur sempre a teatro e non in una sala d’attesa di un commissariato dove i racconti delle tragedie spesso si accavallano.
La violenza alle donne, come quella generica, va certamente combattuta, e tu – nonostante i tuoi sedici anni – lo sai già, ma dal palcoscenico ci dovrebbe arrivare un’analisi critica, una «indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto», una speranza buona, una clamorosa carognata esplicativa, ma qualcosa che lasci un segno e che faccia dire: «Guarda un po’ che intrigante trovata ha pensato questo autore!». Dov’è la rivelazione scenica in questa sequela di crescente delirio disumano? Forse nel sottotitolo, la menzogna dell’amore? Suvvia, non mi sembra una novità. «Caro amore bugiardo…», scriveva Alda Merini!
Nel 1929 il signor Pirandello ha ideato, per il teatro (e non per la cronaca), due personaggi – Verri e Mommina – che sono l’anima di tutti i carnefici e di tutte le vittime dello spettacolo che hai visto al Tordinona; due personaggi che «a soggetto» si immolano nel baratro più profondo delle violenze domestiche, laddove la perfidia dell’uomo cerca di indagare nei sogni di sua moglie. «Tu sogni e ti vendichi», è l’assurda accusa di Rico Verri alla sua donna. Ma in loro c’è un’anima che fa comprendere le ragioni della violenza. E pur se la violenza resta tale, ti assicuro che quando se ne comprendono i motivi – senza numeri e senza percentuali – ci si ragiona sopra e ogni riflessione è un bene a cui non dobbiamo mai rinunciare. Ti ho vista soffrire all’uscita del teatro perché nessun pensiero ti è venuto in soccorso. E questo non è giusto.
Nella foto di © Laura Camia un momento del Capitolo III: l'unico episodio in cui una madre e una figlia vivono un dramma teatralmente esauriente