LA POESIA TRASCRITTA COL BLU DI UN INCHIOSTRO ASSAI SANGUIGNO
La poesia, per fortuna, è sempre più semplice di come la si spieghi. Sia David La Mantia, nella prefazione, che la stessa Giorgia Leuratti, durante la presentazione, si sono avventurati sulla difficile erta dell’esegesi (l’uno) e dell’interpretazione (l’altra). Entrambi, come spesso capita, hanno inconsapevolmente tentato di supportare una ipotetica claudicante vecchierella portandole chi le grucce per camminare e chi un brodo di pollo per rinnovarle le energie. Un sostegno (doppio) di cui i versi della Leuratti non hanno bisogno, ché, anzi, sembrano giovani e arzilli e perfino, a modo loro, briosi e freschi. Quando, infatti, mi sono calato nella lettura di Sei un mistero blu, edito da Controluna, ho provato un piacere fanciullesco, direi quasi un divertimento, nel rintracciare quelle parole, quelle espressioni, quei giochi poetici che si rincorrono, come in un prospetto enigmistico, dalla prima all’ultima composizione.
Sono 56 (più un preludio), ma i titoli nell’indice sono appena sedici: e non è, già quest’anomalia, l’indizio di un enigma che rafforza quel mistero che troneggia in copertina? Pertanto, ha ragione La Mantia quando scova alcune parole che indicano la chiave di lettura: termini scomodi, mai riposanti, ruvidi (scrive lui da docente universitario), scoliotici (aggiungo io da giocoso della poesia). E ha ancora ragione l’autore della prefazione dichiarando che «l’operazione poetica della Leuratti è svelata da questi semplici versi: “ricacciar dal fondo, un nuovo sé, dal fango”». È in questo fango che si ritrova la soluzione del mistero di un gioco, perché il fango non ha profondità, ma resta sempre in superficie (che non vuol dire superficiale, tutt’altro!). Non sono sabbie mobili che occultano, non è il fondo del mare (come ha detto Giorgia presentando la silloge) che protegge, ma è un terreno di gioco inondato da un abbondante acquazzone con enormi pozzanghere dove ci si sguazza allegramente. Un campo da rugby, più che da calcio, dove il medico in panchina è chiamato spesso a intervenire per massaggiare dolenti gomiti, spossatezza alla schiena, alle vertebre, alle spalle, alle braccia, fra le scapole, a tamponare piccole ferite sulle labbra, sugli occhi, sotto le palpebre.
Quasi tutto il corpo umano è menzionato in questo iperbolico esame morfologico dove il feto si potrebbe identificare nel germe della poesia: finanche le sopracciglia, la pelle, il midollo, i palmi, il ventre, compongono l’homo da osservare con gli occhi del gatto. Sì c’è anche un gatto, o forse più d’uno, che ama sonnecchiare in un angolo del letto per scrutare con i suoi occhi gialli tutto quel che di blu passa lì davanti. Non è difficile intuire che le pupille di Clara, dalle zampe di neve, sono soprattutto gli occhi della poetessa, che quando parla è leggera come un gatto, agile, quasi imprendibile. Lo scrive chiaramente (basta saper leggere, nelle poesie c’è sempre acquattato il ritratto del poeta): «Le mie trame son di fango e velluto». E come ci si arrampica bene su quel velluto, dopo essersi divertita a rotolarsi nel fango, con tutto il corpo, con tutto il fisico, per poi scrollarsi di dosso ogni impurità e tornare a essere primordiale e incosciente.
Non mi era mai capitato di leggere poesie così fisiche nel sentimento, e così diagnostiche nei sensi, e non solo per le parole che Giorgia usa, ma perché realmente (per quanto possa essere reale una poesia) lei mette avanti il corpo per scoprire le sensazioni che riceve dall’esterno: e qui, riecco gli occhi del gatto che osservano, scrutano con la perizia di un ortopedico, talvolta un dermatologo. Non è una poesia giocosa quella di Giorgia, ma lei la usa per giocare o per farci giocare; infatti, non mi ha mai trasmesso malinconie, nostalgie, giammai tristezze, ma anzi più di una volta mi ha invitato al sorriso. «Orrifico fauno che discendi sull’ovale dei fianchi»: c’è della sensualità giocosa di donna in questi versi che fanno tornare alla mente le immagini della Bella e la bestia. Un esplicativo contrasto che va ricercato nella forma, nel linguaggio e nell’animo teatrale dove spesso ci si confonde tra la realtà e la finzione.