16 marzo 2024

«Pensaci, Giacomino!» di Luigi Pirandello

Pippo Pattavina

15 marzo 2024

AGOSTINO TOTI, IL TEATRO INCANTATO DI QUARANT’ANNI FA

Pensaci, Giacomino! è una novella scritta da Pirandello nel 1910 e voltata in commedia sei anni più tardi. Tre atti, con tre differenti scene, che Pippo Pattavina trasferisce sul palco esattamente come sono stati pensati dall’autore oltre un secolo fa, affidando la regia a Guglielmo Ferro. Un’operazione, si direbbe, d’archivio: rivedere in palcoscenico l’allestimento così come fu pensato in origine. Sì, perché Ferro si è limitato soltanto a creare sul palco i camerini degli attori, cosicché, quando essi non prendono parte alla scena, li vediamo seduti, alle spalle di chi recita, ciascuno alla propria toletta, in attesa di rientrare da uno di quegli usci che Pirandello si divertiva a disseminare in abbondanza nelle didascalie delle sue opere.

Nella versione che il Quirino propone fino al 24 marzo, sono rispettati i tre atti, raggruppati in due tempi, per cui, dopo appena 30/35 minuti, il sipario si chiude e le luci in sala s’accendono per l’intervallo. Non è uno sfoggio di banalità che mi spinge ad annotare questo particolare, piuttosto una certa nostalgia. Non accadeva da molti anni di assistere a una rappresentazione ingabbiata dalla disciplina del passato. Sentimentalmente l’effetto, per chi ha cominciato ad andare a teatro a vedere commedie divise in tre o quattro atti e con due intervalli, è stato piuttosto ammaliante, tanto che dopo la prima interruzione m’era parso di aver visto un discreto allestimento: un bravo protagonista – sulla validità del testo, dubbi, non ve ne sono – e una messa in scena abbastanza coerente e pulita.

Ma di chi era la regia che stavamo vedendo? Di Ferro o di Pirandello? Leggendo i cartelli sulle porte che s’affacciano sul corridoio del ginnasio, onestamente, sembrava quella suggerita dall’autore, perché il regista – quello vero – aveva operato soltanto oltre la scena, al di là degli usci, dove non accadeva praticamente nulla. Tuttavia, in attesa del secondo atto, alcune considerazioni mi hanno spinto a sostenere il lavoro di Pattavina e di Ferro. La prima: come altro si sarebbe potuto riproporre un testo che basa la sua morale e i suoi ragionamenti su un tessuto sociale completamente diverso da quello attuale? La seconda: una ragazza madre, oggi, non provocherebbe neanche una briciola dello scandalo sollevato dalla gente del paese dove sono avvenuti quei fatti nel lontano 1910. La terza: un figlio cresciuto da una coppia formata da un anziano e una giovane donna che ha un amante suo coetaneo, pure, adesso, non desterebbe alcuno stupore.

Dunque, per questi motivi si sarebbe dovuto rinunciare a un testo del Nobel siciliano? No, questo mai. Allora ha ragione Pattavina a mostrare un autentico Pirandello; ha fatto bene Ferro a non modificare le indicazioni dell’autore. I ragionamenti del professor Agostino Toti funzionano perfettamente, sono logici, educativi, intelligenti e in alcuni punti ancora attuali: «Mi accorgo che lei è come tutti gli altri, allora; vede la professione e non l’uomo», dice Toti al direttore, scoprendo le carte su una deformazione che continua a confonderci. Finanche l’escamotage del matrimonio di un vecchio con una donna più giovane è argomento ancora quotidiano per cercar di strappare una più longeva pensione all’Inps.

Comincia il secondo tempo e subito qualcosa non torna. I protagonisti si seggono in un salotto su sedie da giardino. Gli affascinanti ragionamenti di Toti si intrufolano nei particolari della vicenda, perdendo il loro sarcasmo: la bella letteratura sembra lasciare il posto a questioni davvero un po’ stantie, quali sono – per esempio – le preghiere del direttore. Toh, un errore clamoroso di Ferro che è scivolato sul cappello di Cinquemani (il padre della ragazza), il quale tignoso puntualizza: «E il cappello, io, per sua norma, me lo levo a casa mia», salvo poi toglierselo neanche un minuto dopo. Pirandello è preciso nelle didascalie e non scrive che il bidello compie un’azione che sancirebbe la resa. La battuta detta in precedenza ha un forte senso etico sia riguardo alla stupidità di chi pronuncia la frase, sia per il presunto sfregio che costui vuol arrecare al professore: entrambe le «cortesie» andrebbero rispettate.

In verità ci si dilunga troppo su temi che non ci interessano più. La romantica piacevolezza del conflitto d’antan dovrebbe durare un attimo, invece, ci sono due atti da digerire e sono lunghi. Non tutti gli attori sono all’altezza e purtroppo manca proprio la determinazione di Giacomino che avrebbe il finale nelle mani (se in locandina fossero menzionati anche i personaggi oltre agli interpreti farei nome e cognome!); pertanto l’abbraccio improvviso al figlio che il giovanotto aveva rifiutato fino a quel momento, risulta finto, un po’ telefonato, anche un po’ tanto impacciato! Probabilmente Pattavina avrebbe potuto preparargli meglio la strada, anche lui s’è appena seduto nella commozione finale. Ricordo ancora Salvo Randone, al Teatro Valle, nel ruolo di Agostino Toti, suo cavallo di battaglia: il suo grido soffocato, il dito puntato, il respiro spezzato. Il teatro incantato di quarant’anni fa. (fn)
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Pensaci, Giacomino! di Luigi Pirandello. Con Pippo Pattavina, Debora Bernardi, Diana D’Amico, Francesca Ferro, Giuseppine Parisi, Giampaolo Romania, Riccardo M. Tarci, Aldo Toscano. Scene, Salvo Manciagli. Regia di Guglielmo Ferro

 

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