LA PRINCIPESSA SISSI: IL MISERO POTERE DI UNA DONNA CORONATA
Per raccontare gli ultimi istanti di vita dell’imperatrice Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, Franca De Angelis dà voce a Fanny, la sua acconciatrice, parrucchiera, dama, e, perché no, anche confidente. È il 10 settembre 1898, Sua Maestà si trova a Ginevra, e all’improvviso si accascia a terra. Fanny, che le stava accanto, lancia un urlo. È il grido che apre il monologo, firmato per la scena da Christian Angeli e interpretato da Patrizia Bernardini.
L’autrice rievoca, a suo modo, l’assassinio di cui fu vittima la principessa Sissi per mano di un anarchico italiano, per rivelarci quanto una donna dalla fama regale, amata e rispettata dal mondo intero, una delle poche che, ancora in vita, è riuscita a sfiorare il mito popolare, moglie dell’imperatore Francesco Giuseppe, regina dell’impero austro-ungarico, in realtà, possa contare come unico suddito soltanto il proprio corpo. «Con immensi, continui sacrifici, avete fatto di voi stessa un’opera d’arte», le dice Fanny ingenuamente, credendo che sua maestà si dedicasse al benessere fisico affinché la gente la ricordasse come la principessa più bella del mondo. Ma non è come sembra: «Sai perché mi occupo così tanto del mio corpo? – risponde Sua maestà – Perché è l’unica cosa su cui ho potere… l’unica che sia rimasta nelle mie mani da quando mi posero la corona sul capo».
Allora il monologo della De Angelis, da confidenziale Journal d’une femme de chambre, diventa testo di denuncia sociale: una donna uccisa, per di più senza un motivo preciso, un’imperatrice senza alcun potere effettivo, un essere umano abbandonato alla solitudine dall’uomo – in quel momento – più potente del pianeta, è un assurdo che non può passare inosservato. E giustamente Christian Angeli, nella sua messa in scena al Centro culturale Artemia di Paola Canepa (repliche fino a domenica 3 marzo), pone una costante riflessione: «Se una bambina sogna di diventare una principessa, o quando una principessa sogna di essere quella bambina, come la metti la metti, sarebbe meglio nascere uomo». Naturalmente si tratta di una provocazione: qualche cambiamento in oltre cent’anni c’è stato, ma è pur vero che non tutti hanno compreso il messaggio di uguaglianza. Tuttavia queste «avvertenze per l’uso», che precedono lo spettacolo, inducono lo spettatore a cercare sin da subito un’attinenza con il racconto di Fanny che invece, subito dopo l’urlo iniziale, immergendosi nei suoi ricordi di gioventù, costruisce un’atmosfera completamente diversa. L’antitesi, pur se funzionale, toglie ironia al racconto della protagonista che invece il testo contiene, soprattutto nella prima parte.
Anche il ritratto che Fanny – figlia di un semplice parrucchiere del più popolare quartiere di Vienna – fa della principessa contrasta fortemente con il racconto della sua vita. In effetti, da quel che dice, si evince che Fanny ha avuto la possibilità di sognare liberamente: tra mille difficoltà e qualche carognata selvaggia, i suoi desideri sono andati anche oltre le aspettative, mentre quelli della regina, in pratica, si sono esauriti il giorno dell’incoronazione. Forse l’attrice avrebbe potuto «sporcare» maggiormente con toni e atteggiamenti, più attinenti alle umili origini di Fanny, per meglio chiarire la differenza abissale tra la vita dello Spittelberg e quella dell’Hofburg.