20 marzo 2024

«Un principe in arte Totò» di Antonio Grosso


Roma, Cometa Off
19 marzo 2024

TOTÒ, PINZILLACCHERE E TAMMORRA: I PRIMI PASSI DEL PRINCIPE

Antonio Grosso ripropone al Cometa Off, fino al 24 marzo, il suo Totò senza bombetta – «sbombettato» potrebbe dire scherzosamente il Principe – ossia un Totò privato della sua fisionomia, quasi addirittura della sua identità, ma non della sua anima che qui anzi esplode più scoppiettante e pirotecnica che mai. Un Principe in arte Totò è un omaggio al re delle pinzillacchere, quelle geniali schegge di buonumore che lo hanno reso eterno: Grosso le ha fatte sue per seminarle sulle tavole del palcoscenico e far sbocciare i fiori della giovinezza dell’attore partenopeo. Si racconta il periodo in cui viveva alla Sanità, quando a chiamarlo Totò erano soltanto in pochi e quando l’avvenire d’artista comico non era ancora nemmeno una chimera. Sono soprattutto i primi passi di Antonio Clemente, quando portava ancora il cognome della madre.

La stagione scorsa vidi lo spettacolo all’Off/Off Theatre di Roma e ne scrissi già una recensione. Stavolta, pur volendo confermare il parere positivo sull’operazione di Grosso, portata in scena insieme con l’abilissimo Antonello Pascale, considerata la materia e soprattutto il personaggio, mi piace approfondire l’analisi da un’angolazione differente. Ho detto di un Totò senza bombetta, ed è vero: il tipico copricapo del comico, quello che tutti conoscono, diventa un elemento secondario, rispetto ai ritmi di recitazione, talmente serrati, che travalicano la cronologia degli avvenimenti. Gli episodi raccontati sono quelli dell’infanzia, della prima giovinezza, ma come fulminee visioni, o previsioni, arrivano improvvisi riferimenti più recenti: l’incontro cinematografico con Peppino De Filippo, per esempio, che invece fa parte del periodo più popolare.

Ed è proprio il cinema che diventa scrittura portante in questa soluzione ideata per il palcoscenico. Più che un copione ci si accorge che il testo di Antonio Grosso è una sceneggiatura con continui tagli e dissolvenze che si avvicendano, idealmente, con quella velocità tipica delle comiche del muto. Le corse sono effettuate sul posto, i gesti sono «filmati» in un primissimo piano. I due attori agiscono in scena come se fossero ripresi ciascuno da una telecamera, e mai l’uno si accosta all’altro. Anche quando la mamma rimprovera il figlio, prendendolo per l’orecchio, il braccio teso di Pascale è molto distante dal lobo dolente di Grosso: si vede che è il frutto di un attento studio sulla recitazione e sui suoi effetti attraverso l’obiettivo cinematografico. I due non si sfiorano mai e quando si avvicinano è solo per costruire un muro immaginario tra di loro, come a sancire l’invalicabilità del territorio: il palcoscenico diventa una scacchiera dove muoversi secondo mosse prestabilite per osservare la regola della distanza.

È un gioco cinematografico teatralizzato per dar vita a una memoria lontana, dove i ricordi si fanno più nebulosi e dove il Totò raccontato non è mai il Totò più famoso, quello che è patrimonio di un’umanità in via d’estinzione. Riproporre quel personaggio sarebbe stato un «Grosso» rischio, a causa di un confronto ormai a portata di clic. Invece l’autore si è cautelato interpretando a suo modo il personaggio Totò, riuscendo tuttavia a restituirlo integro nelle intenzioni, sempre con una recitazione iperbolica, quella suggerita dalla scena in cui Totò imita i fuochi artificiali. Lo spettacolo si basa, infatti, su ritmi recitativi incessanti, i duetti sono pirotecnici, e mai sfiorano il realismo. I due attori dialogano sia di spalle che frontali con le stesse intenzioni, con gli stessi toni, pur coinvolgendo personaggi sempre differenti. Ed è quasi sempre Antonello Pascale a ricoprire gli altri ruoli: la mamma, la zia, l’impresario, il cugino, il compagno di sventura, il caporale, etc. etc… tutti in camicia bianca ma con impercettibili sfaccettature che li differenziano.

Tuttavia se la bombetta è l’elemento simbolico e poetico che entra di sguincio a far parte della rappresentazione, la tammorra – che con Totò c’entra ben poco – diventa di diritto la reale protagonista della cavalcata ritmica di Antonio Grosso. È lo strumento di una Napoli antica, nella quale il nostro protagonista ha mosso i primi passi, ma qui diventa il direttore d’orchestra che batte il tempo, che conduce le schermaglie dialettiche, che riecheggia la corsa di un treno, ma che costantemente delinea la condotta musicale di quella «Rumba de’ scugnizze» di Raffaele Viviani. Una musica del 1930 per una storia che si consuma alle porte del Novecento: è il primo segnale del «fuori sincrono» temporale, che conduce lo spettatore in un viaggio disegnato sulla vecchia celluloide. Di contro, però, occorre dire che proprio alcune espressioni temporali suonano stonate: come piazza della Repubblica, quand’era ancora l’Esedra; come l’Ambra-Jovinelli che al debutto di Totò era ancora soltanto Jovinelli. Certo, sono quisquilie, che nulla aggiungono e nulla tolgono né a Totò e nemmeno al bel sogno di Antonio Grosso. (fn)
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Un principe in arte Totò di Antonio Grosso; con Antonio Grosso e Antonello Pascale; regia di Antonio Grosso.

Foto: Antonello Pascale e Antonio Grosso (© ???)


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