UN’ESECUZIONE ESEMPLARE DI UNA DIVERTENTE COMMEDIA EDUCATIVA
Di questi tempi, arrivare al Teatro India non è facile. Roma, sventrata dai cantieri in ogni dove, paralizza il traffico: le deviazioni costringono gli automobilisti a estenuanti gimcane. L’orario d’inizio spettacolo alle ore 20 obbliga coloro che vogliono raggiungere il lungotevere Vittorio Gassman, di fronte al gasometro, ad attraversare la città nel momento cruciale dell’uscita dagli uffici, del lento ritorno a casa: secondo me, sarebbe opportuno rivalutare il vecchio orario delle 21 per aprire il sipario in un clima più sereno – voglio dire, un pubblico meno nevrotico. Tuttavia, La casa nova portata in scena da Piero Maccarinelli è un ottimo incentivo per farsi un bagno nel traffico della Capitale e precipitarsi all’India. Ne vale la pena. È un’opera teatrale divertente, bene allestita e ottimamente recitata. Con un eccellente primo attore.
In compagnia, Stefano Santospago, in realtà è l’unico attore d’esperienza; tutti gli altri (undici) sono giovani, da poco diplomati all’Accademia d’Arte drammatica «Silvio D’Amico», freschi di studio e pieni di bell’entusiasmo, che regalano all’allestimento una brillantezza corale come raramente capita d’assistere.
Un po’ di storia non fa male. La commedia prende spunto dal cambio di casa che Carlo Goldoni, nell’autunno del 1760, di ritorno da Roma a Venezia, si accinse ad affrontare con gran trambusto. Dal rione San Gallo si trasferì a quello San Salvatore: «Son pur stufo ogni zorno aver da far col pitor, col murer, col marangon», scriveva. Malgrado la fatica, egli riuscì a trovare, in quel polveroso disagio, fonte d’ispirazione per una delle sue commedie meglio riuscite, in cui la tessitura delle due famiglie borghesi coinvolte e la disinvoltura dei dialoghi e la vivacità dei colpi di scena «la rende interessante da capo a fondo», sosteneva all’epoca anche Gaspare Gozzi, incurante dei riprovevoli giudizi del fratello Carlo sul suo rivale. La casa nova andò in scena l’11 dicembre del 1760, ma entrò nei cartelloni delle rappresentazioni carnascialesche l’anno successivo. Dunque, molte fonti la datano 1761.
È una commedia che, nonostante i suoi 264 anni, per certi aspetti, fa parte del presente; qualcuno dirà che non è vero, qualche altro potrà sospettare che sia tornata d’attualità soltanto da poco, altri ancora sosterranno che si tratta di mera provocazione. La verità ce la racconta Goldoni, il quale spesso ammoniva «i cittadini veneziani sui pericoli della crescente debolezza dei mariti, sulla soverchia libertà femminile, sui capricci della moda e del lusso, che minacciavano le famiglie e lo Stato». Ora, che la donna arrivi a minacciare lo Stato, pare eccessivo! Piuttosto restano i capricci della moda a turbare pericolosamente le famiglie. Lo sa bene chi è genitore di ragazzi che seguono tendenze – che giungono dal virtuale – sempre più implacabili e insidiose.
L’innovazione che Maccarinelli disegna per la sua regia, grazie a un ottimo lavoro collaborativo con Paolo Malaguti che ha tradotto e adattato il testo, portandolo ai nostri giorni, sta proprio nell’aver scelto un linguaggio contemporaneo, che si ciba della nostra quotidianità. Così gli antichi bezzi (o sghei, i soldi) si contano in euro; l’eleganza di un vetusto camino si trasforma in quella del parquet, e naturalmente la casa nova non potrà fare a meno del megaschermo appeso alla parete centrale della sala da pranzo (al posto dei quadri), del videocitofono (al posto dello specchio) e dell’aspirapolvere agilmente manovrato dalla solerte cameriera. In un secondo tempo si sente invocare un cellulare (proprio mentre un fastidioso squillo insiste in platea e una signora ripara nelle retrovie), poi si parla di una fotografia piccante pubblicata su Instagram, spunta un probabile Tik-Tok; insomma, le usanze del secolo di Goldoni sono cancellate, ma non il suo pensiero che sopravvive con i nostri capricci e le nostre mode.
Ad eccezione dell’aspirapolvere, che viene usata in maniera ironica e provocatrice, tutte le altre trovate moderne solo soltanto nominate: non essere caduto nella tentazione di mettere in mano a un personaggio un telefono cellulare è la cifra registica attenta a conservare l’immortalità dell’opera. Si parla il linguaggio di oggi, ma resta viva l’anima di Goldoni. Il dialetto veneziano è ammorbidito, non è più quello del testo originale, ora suona comprensibilissimo, eppure l’atmosfera letteraria è quella classica. Per i costumi di Gianluca Sbicca, niente tricorni, né pizzi, ma vestiti della nostra epoca, uno verde, uno giallastro, non mancano provocanti scarpette rosse e all’occorrenza le più caste ballerine. Anche la scena è ben congegnata (dallo stesso regista): due zone per i due appartamenti, uno in completa ristrutturazione, l’altro, rialzato, con mobilio più elegante e antico.