04 marzo 2024

«Le Molière imaginaire» di Olivier Py

Laurent Lafitte è Molière

Nizza, cinema Rialto
23 febbraio 2024

«NON È LA MIA MALATTIA AD ESSERE IMMAGINARIA, MA IL MIO IMMAGINARIO AD ESSERE MALATO»

È un film appena sfornato, del 2024. In Italia ancora non è uscito nelle sale (e chissà se…), ma vale la pena ricordarlo soprattutto per il nome che porta nel titolo: un colosso del teatro mondiale dalla vita disordinata che assomiglia a un’avventura epica, un’esistenza vissuta nella consapevolezza della finzione teatrale e della reale immaginazione. Sono queste, in effetti, le radici che hanno generato Le Molière imaginaire di Olivier Py. Una rappresentazione su palcoscenico della vita privata di Jean-Baptiste Poquelin (1622–1673).

L’immaginario, che ha per sorelle la fantasia e la poesia, è una virtù, a volte audace, a volte sfrenata, che gli autori di teatro dovrebbero avere ben viva. Non si discosta troppo dall’indole che in alcuni dona vitalità e strafottenza. Molière le aveva tutte queste doti. Amante di Madeleine Bejart, da cui ebbe una figlia (per la verità qualche dubbio sulla paternità di Armande ancora persiste) che poi, incurante della probabile stretta parentela, sposò addirittura. Ebbe numerose amanti, e – particolare meno noto e sconosciuto al sottoscritto – intraprese anche una liaison con Michel Baron, all’epoca un giovane attore che poi, dopo la morte del maestro, divenne il fautore della Comédie française, edificata in onore di Molière nel 1680.

L’immaginario di Oliver Py, al suo esordio in un lungometraggio, prende spunto dall’ultima recita del grande attore, quando, la sera del 17 febbraio 1673, prima di andare in scena, la tubercolosi, ormai giunta a uno stadio avanzato, gli fa sputare sangue preannunciando il peggio. Molière non accetta compromessi: non può mancare l’appuntamento con il suo Malato: Argante lo attende all’ennesima prova sfidandolo con la forza della più tenace ipocondria; lui, l’attore, malato vero, si sente chiamato da un destino beffardo che non può tradire. Il pubblico affolla la sala e Jean-Baptiste non può deluderlo. E mentre si contorce dal dolore che la tosse gli procura, tra gli affanni, pochi attimi prima del chi è di scena, trova ancora la forza di giocare con le parole del personaggio di cui già indossa l’abito: «Non è la mia malattia ad essere immaginaria, ma il mio immaginario ad essere malato».

Da questa premessa comincia una sorta di delirio scenico, ripresa come fosse un’unica sequenza, tra la finzione della recita e la realtà di un passato indelebile. Molière, nonostante il male, quella sera è un lucidissimo Argante, ma, tornando in quinta, gli spasmi della malattia conducono la sua mente in luoghi sempre diversi e in tempi anacronistici rispetto alla recita, accompagnandolo a rincontrare le persone di cui si è circondato in vita. Rivede tutte le sue donne che riabbraccia, le accarezza, e con le quali ricorda i bei momenti trascorsi, ma anche i meno belli; ritrova i suoi fedeli collaboratori, gli attori, a cui spiega il significato di una battuta che non hanno saputo ben interpretare. L’occhio della telecamera indugia sul malato inseguendo la sua immaginazione negli anfratti dell’antico Palais-Royal (il teatro) che, proprio come un palazzo reale, si presta ad ospitare nei suoi infiniti spazi, gli incontri, le gioie, i rammarichi, i dolori di una delle personalità artistiche più feconde dell’era moderna.

Ogni ambientazione è illuminata con il chiarore delle sole candele – se ne vedono milioni ovunque. La scena più scura è forse la più significativa: l’incontro nel sottopalco con il padre che gli rimprovera di non aver soddisfatto abbastanza le aspettative di Louis XIV, le Roi soleil. Monsieur Poquelin era il tappezziere di Palazzo ed ebbe molte sollecitazioni da parte del re, ammiratore delle prime farse scritte dal giovane Molière. «Dovevi continuare con la farsa – lo rimprovera – invece ti sei voluto dare alla commedia. Hai gettato via la fortuna e l’appoggio di Sua maestà». Certamente il vecchio padre non poteva sapere che il frutto della passione con cui il figlio si dedicò ai personaggi delle sue commedie fu successivamente preso a modello per la più imponente rappresentazione letteraria della Commedia umana descritta da Balzac.

Il regista si sofferma anche sul pubblico nei palchi, dove sono assiepati tutti coloro che il commediografo avrebbe volentieri evitato di incontrare in extremis: sono marchesi, duchi, baroni, personalità aristocratiche, incipriate e imparruccate, di quella società che gli ha offerto l’opportunità di descriverne i difetti più dei pregi. Non mancano battute riesumate dalle sue opere: dal Tartufo al Misantropo, dall’Avaro al Borghese gentiluomo. Tra il pubblico colpiscono tre centenarie marchese, dipinte come le parche addette a tessere il destino e a tagliare il filo al momento in cui la morte, nascosta in quinta, sta facendo l’apparizione. Il dilemma teatrale si ripropone per l’ennesima volta: tutto ciò che è finto è vero e tutto quel che è vero è finto. Molière viene portato in quinta, ormai morente.

L’idea del film è molto accattivante. La magia del teatro che ingloba più ambienti è assai fascinosa e anche ben concepita. Ma la realizzazione degli intenti non è all’altezza di una commedia di Molière: casca proprio laddove il maestro era (e in parte resta) imbattibile: la costruzione dei personaggi. Laurent Lafitte ce la mette tutta per diventare il Molière delle ultime ore, ma è fisicamente troppo in salute e quindi poco credibile, tutti gli altri sono maschere o apparizioni poco approfondite. Infine, per quanto possa essere la vera novità, l’aver indugiato troppo sull’attrazione omosessuale di Jean-Baptiste Poquelin potrebbe far pensare più a un’esigenza commerciale per accontentare il desiderio di un pubblico in cerca di gossip, che a una meticolosa ricerca biografica. A meno che l’imaginaire di Olivier Py non voglia uniformarsi alle mode del momento. (fn)
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Le Molière imaginaire, un film di Olivier Py (2024). Con Laurent Lafitte (Molière), Stacy Martin (Armande Béjart), Jeanne Balibar (Madeleine Béjart), Judith Magre (Marchesa de Rohan), Dominique Frot (Marchesa d’Aiguillon), Catherine Lachens (Marchesa de Sablé), Olivier Py (Marchese de Roffignac), Émilien Diard-Detoeuf (La Grange), Gray Orsatelli (Duca de Bellegarde), Bertrand de Roffignac (Michel Baron), Pierre-André Weitz (La Thorillière), Eva Rami (La Beauval), Jean-Damien Barbin (Chapelle), Céline Chéenne (Catherine de Brie), Christian Morand (Padre Martin), Olivier Balazuc (Marchese de Fresquières), Philippe Girard (Arcivescovo di Parigi), Jean-François Perrier (Rohault), Enzo Verdet (paggio), Jean-Philippe Lafont (Mr. Poquelin), Marie-Christine Orry (Madame Laforet), Stéphanie Berger (creata), Clément Roy (Duca de Guiche). Sceneggiatura, Olivier Py e Bertrand de Roffignac. Scenografia, Pierre-André Weitz. Costumi, Yvett Rotscheid. Fotografia, Luc Pagès. Regia, Olivier Py

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