Laurent Lafitte è Molière |
«NON È LA MIA MALATTIA AD ESSERE IMMAGINARIA, MA IL MIO IMMAGINARIO AD ESSERE MALATO»
È un film appena sfornato, del 2024. In Italia ancora non è uscito nelle sale (e chissà se…), ma vale la pena ricordarlo soprattutto per il nome che porta nel titolo: un colosso del teatro mondiale dalla vita disordinata che assomiglia a un’avventura epica, un’esistenza vissuta nella consapevolezza della finzione teatrale e della reale immaginazione. Sono queste, in effetti, le radici che hanno generato Le Molière imaginaire di Olivier Py. Una rappresentazione su palcoscenico della vita privata di Jean-Baptiste Poquelin (1622–1673).
L’immaginario, che ha per sorelle la fantasia e la poesia, è una virtù, a volte audace, a volte sfrenata, che gli autori di teatro dovrebbero avere ben viva. Non si discosta troppo dall’indole che in alcuni dona vitalità e strafottenza. Molière le aveva tutte queste doti. Amante di Madeleine Bejart, da cui ebbe una figlia (per la verità qualche dubbio sulla paternità di Armande ancora persiste) che poi, incurante della probabile stretta parentela, sposò addirittura. Ebbe numerose amanti, e – particolare meno noto e sconosciuto al sottoscritto – intraprese anche una liaison con Michel Baron, all’epoca un giovane attore che poi, dopo la morte del maestro, divenne il fautore della Comédie française, edificata in onore di Molière nel 1680.
L’immaginario di Oliver Py, al suo esordio in un lungometraggio, prende spunto dall’ultima recita del grande attore, quando, la sera del 17 febbraio 1673, prima di andare in scena, la tubercolosi, ormai giunta a uno stadio avanzato, gli fa sputare sangue preannunciando il peggio. Molière non accetta compromessi: non può mancare l’appuntamento con il suo Malato: Argante lo attende all’ennesima prova sfidandolo con la forza della più tenace ipocondria; lui, l’attore, malato vero, si sente chiamato da un destino beffardo che non può tradire. Il pubblico affolla la sala e Jean-Baptiste non può deluderlo. E mentre si contorce dal dolore che la tosse gli procura, tra gli affanni, pochi attimi prima del chi è di scena, trova ancora la forza di giocare con le parole del personaggio di cui già indossa l’abito: «Non è la mia malattia ad essere immaginaria, ma il mio immaginario ad essere malato».
Da questa premessa comincia una sorta di delirio scenico, ripresa come fosse un’unica sequenza, tra la finzione della recita e la realtà di un passato indelebile. Molière, nonostante il male, quella sera è un lucidissimo Argante, ma, tornando in quinta, gli spasmi della malattia conducono la sua mente in luoghi sempre diversi e in tempi anacronistici rispetto alla recita, accompagnandolo a rincontrare le persone di cui si è circondato in vita. Rivede tutte le sue donne che riabbraccia, le accarezza, e con le quali ricorda i bei momenti trascorsi, ma anche i meno belli; ritrova i suoi fedeli collaboratori, gli attori, a cui spiega il significato di una battuta che non hanno saputo ben interpretare. L’occhio della telecamera indugia sul malato inseguendo la sua immaginazione negli anfratti dell’antico Palais-Royal (il teatro) che, proprio come un palazzo reale, si presta ad ospitare nei suoi infiniti spazi, gli incontri, le gioie, i rammarichi, i dolori di una delle personalità artistiche più feconde dell’era moderna.
Ogni ambientazione è illuminata con il chiarore delle sole candele – se ne vedono milioni ovunque. La scena più scura è forse la più significativa: l’incontro nel sottopalco con il padre che gli rimprovera di non aver soddisfatto abbastanza le aspettative di Louis XIV, le Roi soleil. Monsieur Poquelin era il tappezziere di Palazzo ed ebbe molte sollecitazioni da parte del re, ammiratore delle prime farse scritte dal giovane Molière. «Dovevi continuare con la farsa – lo rimprovera – invece ti sei voluto dare alla commedia. Hai gettato via la fortuna e l’appoggio di Sua maestà». Certamente il vecchio padre non poteva sapere che il frutto della passione con cui il figlio si dedicò ai personaggi delle sue commedie fu successivamente preso a modello per la più imponente rappresentazione letteraria della Commedia umana descritta da Balzac.
Il regista si sofferma anche sul pubblico nei palchi, dove sono assiepati tutti coloro che il commediografo avrebbe volentieri evitato di incontrare in extremis: sono marchesi, duchi, baroni, personalità aristocratiche, incipriate e imparruccate, di quella società che gli ha offerto l’opportunità di descriverne i difetti più dei pregi. Non mancano battute riesumate dalle sue opere: dal Tartufo al Misantropo, dall’Avaro al Borghese gentiluomo. Tra il pubblico colpiscono tre centenarie marchese, dipinte come le parche addette a tessere il destino e a tagliare il filo al momento in cui la morte, nascosta in quinta, sta facendo l’apparizione. Il dilemma teatrale si ripropone per l’ennesima volta: tutto ciò che è finto è vero e tutto quel che è vero è finto. Molière viene portato in quinta, ormai morente.
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